Ne ho contate 110 in 10 giorni.

110 paia di Birkenstock. 

Questo significa che per 10 giorni sono incappata in media in 11 persone al giorno che le indossavano. Ed erano sempre persone diverse.

È mia abitudine camminare guardando sempre dove metto i piedi, probabilmente perché non essendo altissima il pericolo di inciampare in ostacoli è ricorrente. Perciò, senza farlo apposta, mi focalizzo spesso sui piedi delle persone che mi camminano vicino e sulle loro scarpe. Mi piace giocare a “dimmi che scarpa indossi e ti dirò chi sei”: prima di guardare le persone nella loro totalità mi immagino come potrebbero essere partendo dalle scarpe. Spesso l’idea che mi faccio corrisponde al look effettivo delle persone. Sono brava in questo gioco! Ma con le Birkenstock ho sbagliato per 11 giorni e per ben 110 volte.

Le ho viste ai piedi di tossichelli indie (cit.) e ragazze pronte per l’aperitivo chic al tramonto; di teenager con top crochet e di signori con selfie stick e cordino porta occhiali da sole al collo. Insomma, tanti cluster di pubblico, tutti molto diversi tra loro. Non c’era una regola, non c’era uno stile. C’era solo una forte sensazione: la comodità. 

Certamente si può parlare di comodità ma non si può parlare di bellezza.
Non lo dico io, ci mancherebbe. Non sono nessuno per dare consigli di stile: ho delle Converse totalmente olografiche e le amo alla follia. Non potrei fare concorrenza nemmeno al peggior fashion stylist di Caracas.
Lo dicono loro, le Birkenstock.

Fonti: prnewswire.com e thedrum.com

Il brand è infatti uscito con una campagna globale che recita “Brutte per una ragione”. Questa ragione è la comodità. Il concept della campagna infatti si focalizza sul ruolo fondamentale che ha il piede quando si parla di benessere fisico (ma anche mentale). Una campagna che si sviluppa con 3 video in stile documentario in cui voci autorevoli, come esperti di podologia e ballerine di danza classica, raccontano il link diretto tra benessere del corpo e comodità del piede.

Io personalmente amo le campagne pubblicitarie che si focalizzano su un difetto di prodotto (come in questo caso l’aspetto non proprio bello delle ciabatte) e lo rendono punto di forza. Questa è una dinamica che amo anche quando mi relaziono con le persone: a vendere le caratteristiche belle del nostro essere siamo capaci tutti. A rendere speciali i difetti serve grinta da vendere.

Questa ricercatezza nella forma e nei materiali giustificano anche un prezzo importante, una cifra che io personalmente non spenderei mai per delle ciabatte così normali. E Birkenstock lo sa.

In che senso lo sa? Nel senso che la sua campagna globale prevede delle declinazioni su tutti gli strumenti digitali (search, display, pre-roll, campagne social, influencer marketing e tanto altro) che non mi hanno MAI, ma proprio mai targettizzata. 

Io non sono in target per un prodotto come le Birkenstock: non ho interessi affini al brand, non svolgo azioni online che mi potrebbero abbinare al prodotto, non seguo i loro ambassador. Insomma, con loro non c’entro proprio nulla. Nel targetizzare il loro pubblico, infatti, mi hanno giustamente esclusa: non sono una potenziale acquirente e probabilmente non lo sarò mai.

Anche noi in copiaincolla, quando strutturiamo le campagne web e social, siamo “chirurgici” nel targetizzare il pubblico di riferimento: è necessario ottimizzare il budget a disposizione riferendosi soltanto alle persone con interessi e caratteristiche affini ai prodotti e ai servizi da pubblicizzare.

Prima di scrivere questo articolo ho approfondito la storia delle Birkenstock. Ho scoperto che sono nate nel 1774 (WOW!), che sono tedesche, che nel 2018 hanno interrotto la relazione con Amazon Europa perché non accettavano più di essere vendute su una piattaforma che le offriva anche contraffatte (anche se io su Amazon le ho trovate) e che negli anni non sono mai cambiate se non per proporre più colori. Ma nell’istante in cui ho terminato la ricerca, il mio essere esclusa dal mondo Birkenstock è finito. PER SEMPRE.

È infatti partito il retargeting che si è agganciato alle mie ricerche per iniziare ad inseguirmi in tutte le mie esperienze online. Da quel momento hanno iniziato a “bombardarmi” dap-per-tut-to con campagne commerciali con obiettivo traffico all’e-commerce.

Fonte: @intrashttenimento2.0

Questa cosa mi ha fatto riflettere: è vero che non sono un’amante di queste calzature e quindi questi annunci proprio non sono giusti per me. Ma anche se fossi in target, non è un po’ troppo? Non è già abbastanza vederle ai piedi di 110 persone in 10 giorni?

E lo dico da persona che crede nelle comunicazioni push e nell’idea che se non conosci qualcosa la mia missione è fartene innamorare. Però quando è troppo è troppo. In questo modo, una bella creatività, che effettivamente potrebbe far innamorare un pubblico di prospect (potenziali clienti, ndr) rischia di farsi sorpassare dalla sensazione di soffocamento che tutti quegli annunci trasmettono.

Io personalmente farò tesoro di questa riflessione: sta proprio in una strategia vincente calibrare questi dettagli. Noi che facciamo questo mestiere dobbiamo essere bravi a non perdere mai il contatto con il pubblico per il quale realizziamo le pubblicità. Non dobbiamo mai smettere di metterci nei loro panni, nemmeno quando la routine quotidiana, tra mail e riunioni, rischia di prendere il sopravvento. Avere il privilegio di avere a che fare con i bisogni non dichiarati delle persone (gli insights) è una sfumatura preziosa del nostro lavoro.

Da oggi, mi chiederò una volta in più: “Veronica, ti sei messa nei panni del tuo interlocutore?”.

Vi assicuro che, nella sua semplicità, è una frase che può far prendere strade inaspettatamente positive alle relazioni, tra persone ma anche tra brand e consumatori.

Provare per credere!