Perché per la maggioranza delle persone la lettura è sinonimo di noia e sforzo? Qualche tentativo di risposta e di soluzione

Me lo ricordo perfettamente, come fosse ora.

Era un pomeriggio di fine luglio del 2003, l’estate che per me anticipava l’inizio della quinta liceo. Ero sdraiato sul tappeto persiano che mio padre e sua moglie ancora tenevano nel salone della loro casa, davanti al divano. Guardavo il soffitto in un momento di noia tremenda. Nessuna voglia di portarsi avanti con le versioni di latino che avevo per le vacanze, troppo caldo per uscire a vedersi con gli altri, i due amici più stretti al mare, lontani da casa. Tutto quanto fermo e piatto. Poi ho ruotato leggermente la testa verso destra, verso una delle librerie sparse per la casa. Le stesse coste dei libri che avevo guardato mille altre volte. Poi d’improvviso una casualità. Non le ho solo guardate ma mi sono messo a vederle. Ho letto un titolo. Ti prendo e ti porto via. Mio padre ha sempre disprezzato Vasco, sua moglie no ma di certo non lo ascoltava. Quindi che titolo era? Cos’era quella presenza apparentemente distonica con tutto il resto della casa e con il gusto di chi la abitava e di chi comprava tutte le centinaia di libri che la riempivano?

L’ho preso. L’ho aperto. Ho letto la prima pagina per curiosità. Era un romanzo. Poi la seconda, perché era collegata alla prima e mi sembrava scorresse come per me non era mai scorsa nessun’altra pagina di libro. Senza accorgermene nel giro di poco avevo letto la prima cinquantina di pagine. E ne volevo ancora. Ed ero felice di vedere che avevo davanti altre 450 pagine o giù di lì. Anzi, mi spiaceva vedere che poi sarebbe finito.

Ti prendo e ti porto via è un romanzo di Niccolò Ammaniti del 1999. Mio padre e sua moglie non ricordavano nemmeno di preciso chi dei due l’avesse comprato né perché. Nessuno dei due quindi l’aveva ancora letto. A loro non sarebbe piaciuto così tanto come oggi nemmeno io, nei mie trentasette anni, lo amerei come l’avevo amato allora. Ma non importa. Non è questo il punto. Il punto è che avevo trovato il mio personale punto d’ingresso verso la lettura. Avevo trovato porta e chiave. E soprattutto avevo trovato il mio personalissimo piacere e non quello che altri avevano tentato di trasferirmi dicendo che leggere faceva bene allo spirito, che arricchiva, che se leggi viaggi senza in realtà cambiare luogo. Tutte frasi con un fondo di verità ma che fino a che non senti tue non avranno alcun effetto.

Prima di quel pomeriggio leggere mi aveva sempre respinto. A volte spaventato.

Era sinonimo di studio, di fatica, di un grande investimento di concentrazione, di qualcosa di lungo giorni e settimane passate sempre attorno alla stessa storia e allo stesso argomento. Esattamente le ultime cose che volevo per il mio tempo libero.

Purtroppo la grande – l’enorme – maggioranza delle persone hanno una visione distorta della lettura e dei libri. La stessa che avevo io prima di quel pomeriggio. Una visione che è conseguenza di un retaggio culturale ereditato spesso dalla scuola.

In me era una visione talmente radicata che nonostante fin da bambino mi siano sempre piaciuti gli oggetti libri – le copertine, il vederli tutti disposti in fila, il calore che davano alle stanze, il profumo che usciva dal punto in cui le pagine sono rilegate, il profumo delle librerie – non riuscivo comunque a vederli come un piacere. Come qualcosa che mi donasse cose invece di pretenderle. Che fosse comodo invece di scomodo.

Siamo sempre appesantiti dall’equazione stupida se leggi allora sei intelligente che finisce per rendere la lettura un precetto medico, un consiglio da professore a studente, vestendo i libri di un valore morale che appesantisce, che ostacola la costruzione di un rapporto informale, fresco, leggero con le pagine. Sembra un dovere per arricchire l’intelletto, e il dovere porta poi a un senso di autoimposizione che è ulteriore zavorra: “se l’ho iniziato allora devo finirlo, non importa se non mi sta piacendo, è giusto così”. Assurdo.

Sempre mio padre mi ha sintetizzato la questione con una metafora, i libri come persone. Perché passare del tempo con qualcuno che non vi piace, perché sentirsi obbligati ad andarci a cena di nuovo se alla prima cena passata insieme non avevate cose in comune, faticavate a comunicare, a capirvi, a entrare in sintonia?

Un libro andrebbe serenamente visto con fatalismo: potrebbe non piacere e se accadrà non sarà un problema, non significherà che allora non sei culturalmente elevato.

La colpa della mancata sintonia tra persona e libro è sempre data alla persona; basterebbe scaricarla invece sul libro e tutto sarebbe più semplice, i libri smetterebbero d’essere così distanti e ostili, si smetterebbe di generalizzare la lettura come non si generalizza con le persone. Se qualcuno ti sta antipatico smetti di parlare anche con tutti gli altri? Ci sarà il libro che ti piace, che ti tiene attaccato alle pagine, che ti spiace arrivi all’ultima pagina, serve solo trovarlo.

Un libro non va visto come un pezzo di cultura – sentite che pesante solo a leggere la frase – ma come una cosa da fare per staccare un attimo dalla realtà, esattamente come accade con un film, un disco, un aperitivo e decine di altre cose che facciamo sempre. E se a metà libro sarai già appagato, interrompi. Magari lo riprenderai, magari no. Non importa.

I libri respingono perché spesso vengono messi sopra un piedistallo e da lì sembrano pretendere cose, guardandoci dall’alto in basso. Invece sono strumenti, oggetti, mezzi. Sono sotto di noi, vanno usati. Ti serve quel libro? Bene. Non ti serve quell’altro libro? Allora non perderci tempo.

Ci sono libri che fanno piangere dal ridere e altri che generano orrore, addirittura nausea. Ci sono pagine che ho dovuto saltare perché per me inaffrontabili, più dure che se fossero state rese in immagini. Perché proiettavo nella mia mente quell’orrore plasmandolo sui dettagli che per me sono più orrorifici.

I libri non sono intellettuali, i libri sono belli o brutti, affini o distanti per noi, profondi o superficiali, illuminati o insipidi.

Portiamoli giù, giudichiamoli, sfruttiamoli, pretendiamo cose da loro. E finalmente smetteranno di incutere timore. E diventeranno un altro passatempo dei vostri.