Una fotografia difficile da realizzare

Lorenzo me ne ha parlato la prima volta mentre eravamo su un set, in una pausa tra un’inquadratura e l’altra, per prendere fiato, che girare è un lavoro molto più fisico di quel che ci si immagina se non si è mai stati su un set.

Diverse ore in piedi, in poco spazio, con posizioni scomode. Ogni tanto facendo una piccola corsetta improvvisa per prendere un nastro adesivo, uno stativo, una prolunga, una parola da qualcuno. Una dilatazione del tempo – accentuata dalla convivenza stretta con altri – che ti porta spontaneamente a voler riempire le pause chiacchierando. Provi a parlare d’altro e così arrivano le varie “hai mai lavorato con quelli?”, “una volta ho girato questo documentario in sud America”, “ora sono su un progetto che mi sta assorbendo parecchio” e altre e altre frasi ancora.

Della sua foto Lorenzo me ne ha parlato la prima volta mentre eravamo su un set, in mezzo alle frasi tipiche delle pause di ogni set.

Lorenzo qui a copiaincolla si occupa di progetti motion e video. Mi aveva raccontato della foto presentandomela come una cosa difficile. Ma non di una difficoltà generica, no. Di una difficoltà cercata, costruita. Una foto la cui realizzazione era stata volutamente complicata. “Ci siamo chiesti come avremmo potuto renderci la vita difficile, quali sarebbero potute essere le condizioni più ostiche per uno scatto. E le abbiamo unite assieme. Ce le siamo imposte tutte”.

Poi la pausa era finita, abbiamo ripreso a girare e della foto non abbiamo più parlato.

È uscita di nuovo fuori un paio di settimane più tardi, davanti a una birra che ci siamo presi dopo il lavoro. “Ti ricordi che ti avevo detto della foto? L’abbiamo definitivamente finita l’altro ieri. Ci siamo stati su un anno. Domani porto a copiaincolla l’hard disk e te la faccio vedere”.

Prima che arrivasse la seconda birra – e che osassimo anche un sacchettino di carne essiccata – mi aveva già raccontato che era partito tutto da una sua idea e da un crowdfunding. Nessuno di loro lavorava e avevano necessità di poter contare su un budget di almeno seicento o settecento euro per scegliere un modello, affittare una sala di posa e arruolare tutti i professionisti necessari a realizzare lo scatto esattamente come concepito.

Questo è un momento del backstage. La foto finale non la pubblichiamo qui per non rovinare l’hype verso possibili concorsi a cui probabilmente verrà iscritta o esposizioni in cui probabilmente verrà inserita. La vedete quella cosa marroncina sospesa in mezzo all’immagine? È tessuto. L’abito del modello non gli era stato fatto indossare ma gli era stato sovrapposto in prospettiva, tenendolo appeso. Una delle tante difficoltà volontarie decise per questa fotografia.

Difficile in che senso?

Prima difficoltà auto imposta nelle intenzioni di Lorenzo: la fotografia avrebbe dovuto fare a meno anche del minimo intervento di post-produzione, cosa che negli anni Venti di questo secolo – in cui anche il più sciocco dei selfie in spiaggia viene spesso elaborato con filtri preimpostati da smartphone – suona un po’ come se si volesse cucinare un piatto di pasta senza condirlo. Incompleto, imperfetto. Addirittura assurdo.

Ogni dettaglio doveva essere creato realmente sul set e non invece sistemato a posteriori. Per riuscirci avrebbero dovuto avere chiaro ogni più capillare dettaglio della realizzazione.

Il soggetto sarebbe stato un modello maschile. L’avrebbero ritratto da seduto, di tre quarti, con vesti che l’avrebbero coperto solo in parte. Il corpo completamente ricoperto di una tinta per body painting, di un verde tra il salvia e lo smeraldo. Alle spalle avrebbe avuto due specchi che dovevano essere sospesi. Altra complicazione: gli specchi non dovevano riflettere l’immagine di schiena e nuca come prevedibile, ma il volto del modello, e questo significava dover posizionare altri specchi alle spalle della camera, creando un inaspettato gioco di riflessi.

Per capire come risolvere ogni problema e come sarebbe stata la scena, ne avevano realizzato un modellino in cartone con le esatte proporzioni. Oltre alle tavole di studio per costumi e acconciatura – complessa anche quella, con i capelli sostenuti in lunghe punte disposte a raggiera.

Senza addentrarci oltre in tutti gli altri cavilli e flussi creativi che Lorenzo e gli altri avevano concepito, mi fermo dicendo quanti e per quanto sono stati coinvolti in tutta questa grande e apparentemente superflua complicazione.

Un regista, un direttore artistico, un direttore della fotografia, un direttore delle scenografie, un consulente operativo. A questi, nelle fasi di produzione in sala di posa, si sono aggiunti un supporto tecnico, un bodypainter, un parrucchiere, un backstager, ovviamente il modello, due tuttofare per gestire i contrattempi. Cinque sedute in studio, dunque, per sessanta ore totali e tredici persone.

Il valore terapeutico del farla difficile

La domanda originale – non nel senso di bizzarra, quanto in quello di primaria, all’origine di tutte le altre domande – è semplicissima: perché complicarsi la vita in quel modo?

Non è per masochismo.

Non c’entra nulla con il piacere subdolo generato dalla propria sofferenza, dal sentirsi puniti da qualcuno o qualcosa.

Non è per infliggersi pene attraverso cui espiare colpe. Il genere di complicarsi la vita che aveva scelto il cinico mercante di schiavi Rodrigo Mendoza, con il volto e il corpo di Robert De Niro, condannandosi ad attraversare le foreste pluviali tra Argentina e Paraguay trascinandosi i chili e chili del ferro della propria armatura legati alla schiena, credendo così di compensare con la propria sofferenza fisica l’insopportabile dolore per aver assassinato il proprio fratello.

Il momento in cui padre Gabriel (Jeremy Irons), un missionario in cammino con Mendoza, sta per tagliare la fune che lo tiene legato all’armatura, liberandolo dal suo carico di ferro e di colpa.

Sia chiaro, la foto con il modello verde non è nemmeno questione da simpatici nerd.

Lorenzo – e a cascata quel suo progetto – non è tipo da sfoggiare paroloni per stupire, né da dilungarsi in disquisizioni sul linguaggio cinematografico del regista x e del D.O.P. y per apparire interessante.

Anche quel genere di persone tende a complicare le cose, ma lo fa per l’incapacità a risolverle. Si beano del loro sapere futile sperando di confondere le idee in chi li guarda, di nascondere la loro incapacità a fare le cose per bene, mantenendo standard sempre alti.

Sono le stesse persone – e i progetti! – mai esigenti con sé stessi, ma solo con gli altri: se fallisco è perché non sono compreso.

Il complicarsi la vita dietro a quella fotografia non è una scelta cervellotica ma funzionale.

Non è ricerca di difficoltà fine a se stessa, è anzi mettersi davanti salite durissime e poi iniziare a scalarle.

Ma c’è di più.

Un aspetto affascinante, forse esistenziale, per chi crea qualcosa per un pubblico.

C’è la consapevolezza che difficilmente lo spettatore riconoscerà che tutto quello che vede non è frutto di post-produzione. La consapevolezza cioè di aver percorso strade tortuose e lunghissime e di essere confuso con chi arriva alla stessa meta avendo fatto solo un quarto d’ora d’autostrada.

Dunque perché farlo?

Per fregarsene, probabilmente. Per cibarsi di asticelle posizionate molto in alto.

Per godersi la lentezza, la lunghezza di un processo, il lavoro delle proprie mani e delle proprie menti, il piacere di cucinare le lasagne al forno – facendo anche la sfoglia – invece di comprarle in gastronomia, per poi godersi il frutto del proprio lavoro.

Gustandoselo sapendo perfettamente quali e quante stratificazioni di incazzatura e soddisfazione, sudore e leggerezza, risate e musi lunghi stanno dietro al risultato finale.

“Scusa ma non si poteva fare con Photoshop?”.

Certo che si poteva, ma sarebbe stato diverso. Sarebbe stato meno.