Chi lavora nel mondo della comunicazione, del marketing o semplicemente in ogni mondo possibile in cui le idee si tramutano in case, libri, auto, fogli di giornale, lo sa. Sa che ogni santo giorno dovrà correre più veloce del vento per non cadere nella trappola del gusto personale. E per non finire nelle fauci di questo leone affamato e irrazionale, la nostra piccola gazzella – che siamo noi, a volte ignari del pericolo, a volte complici di questo circolo vizioso – dovrà imparare a difendersi. Ma come? 

Quanto (non) mi piaci!

La prima minaccia risiede forse nel concetto stesso di gusto, calato malamente e purtroppo spontaneamente nell’ambito lavorativo. A livello generico e standardizzato, consideriamo di nostro gusto qualcosa che ci piace, che possiamo riconoscere come facente parte dei nostri canoni estetici, che giudichiamo quindi positivamente dal nostro punto di vista. Che accettiamo.

Nel nostro caso, nell’ambito squisitissimo delle agenzie di comunicazione, per esempio, non si parla di corpi perfetti, di mascelle pronunciate o di zigomi da star (almeno, non sempre, ecco), ma di forme, colori, composizioni che si ritengono all’altezza delle nostre aspettative di piacere professionale. O che invece vengono bollate in fretta e furia come brutte, non presentabili, da scartare. Cestinare.

Fare del lavoro di agenzia un concorso di bellezza è una tentazione tanto umana quanto diabolica. La questione annosa e tendenzialmente senza fine della lotta tra il bello e il brutto entra prepotentemente nella quotidianità progettuale e mette in discussione ogni giudizio obiettivo, scalciando il buon senso, le lauree e i master fatti per arrivare a ricoprire quella posizione tanto agognata e tutte le sacrosante obiezioni a quel maledetto “No, non mi piace”.

Cosa dovrebbe fare la nostra gazzella di fronte a questa sentenza perentoria, priva di motivazioni? Come potrebbe mai vincere questa battaglia impari, contro il gusto personale altrui, di chi decide cosa è bello o cosa no? Si può davvero non essere sbranati da questa logica da chirurgia estetica? Oppure non c’è scampo ed è inutile combattere?

“Ogni scarrafone è bello a mamma soja”.

Il nostro essere intrinsecamente bisognosi dell’approvazione altrui ci frega. Di brutto (ops). Ciò che dicono e pensano gli altri su ciò che facciamo ci influenza quasi sempre, chi lo nega sa di essere un Pinocchio oppure ha raggiunto il Nirvana in qualche modo e non vuole dirci come ha fatto – lo preghiamo di fare un webinar a riguardo. Questa consapevolezza ci distrugge dentro e ci rende più deboli di fronte alla mostruosa schiettezza del gusto. Indeboliti e affranti, ci avviciniamo agli altri presentando le nostre “povere creature” offrendole in sacrificio e sperando nel miracolo della grazia. Se succede, ci sentiamo dei grandi. Se invece falliamo, delle grandissime…avete capito.

Proprio qui sta l’inghippo: innamorarci perdutamente delle nostre idee, come un genitore col proprio figlio appena nato, pone la parola fine alla nostra salute mentale. É naturale voler difendere con le unghie e con i denti quanto abbiamo pensato e prodotto, soprattutto in ambiti progettuali competitivi come lo sono il design, la grafica o la comunicazione in generale. Ma non si può certo sottoscrivere un abbonamento alla sofferenza delle idee, senza incappare, prima o poi, in bel (bello sì) burnout.

Siamo sicuri che è questo quello che vogliamo?

A mio tuo suo loro gusto.

Esistesse un unico gusto, condiviso da tutti e soprattuto raggiungibile da tutti, sarebbe facile e non sarebbe possibile neppure discuterne in questo articolo. Sarebbe anche meno divertente, di sicuro meno saporito. Avere la consapevolezza che ciò che facciamo e che fanno gli altri, come prodotto della creatività nostra e loro, possa piacere e non piacere allo stesso tempo a persone diverse è forse la paradossale chiave di volta per garantirsi una serenità più stabile anche sul posto di lavoro. Un’ancora di salvezza per i nostri nervi stanchi.

Il gusto è spassosamente labile, cambia come la moda e molto spesso non chiede consiglio alla razionalità. Non possiamo difenderci da espressioni del gusto troppo giudicanti e per nulla obiettive, ma possiamo accettare che tali giudizi esistano e che non sempre è possibile contrastarli. Magari il nostro operato è davvero di cattivo gusto – ammettiamolo, molte delle volte è così, se riuscissimo a guardare le cose da un’altra prospettiva, come chi guarda un quadro da lontano dopo averlo finito – magari, invece, abbiamo fatto un buon lavoro e dovremmo soltanto esserne orgogliosi, in modo sano. E se la bontà dello stesso non dipendesse necessariamente dall’occhio altrui e potessimo conservare per noi la soddisfazione del fatto compiuto e affidarci più umilmente al parere di chi ci sta intorno?

Così la caramella che ci tocca ingoiare avrebbe un gusto migliore.

Questione di rispetto, non di gusto.

Se da una parte possiamo intervenire su come gestiamo internamente il parere verso il nostro lavoro, dall’altra anche chi lo esprime verso l’esterno potrebbe fare altrettanto. Un atteggiamento costruttivo e non distruttivo aiuta a trovare eventuali soluzioni per raggiungere gli obiettivi prefissati, rendendo più agile la “riconciliazione” tra chi ha fatto qualcosa pensando di aver fatto bene e chi quella cosa non la giudica all’altezza delle proprie aspettative Non necessariamente a torto, ma neanche per forza a ragione. È naturale, umano e comprensibile percepire sulla lingua quel fallimento che sa d’inchiostro, agrodolce andato a male.

Una medicina più edibile forse c’è.
Risiede in un ingrediente che rende ogni ricetta più buona: il rispetto. Per abbattere la competizione tra le persone e per illuminare la cecità del gusto personale, a volte basterebbe poco: confrontarsi e capirsi, parlarsi alla pari e non dall’alto in basso, cooperare senza lottare all’ultimo sangue. Tutti i gusti sono accettati, anche quelli che sono diversi dal nostro. Non escludiamone alcuni a priori, non scegliamo sempre i soliti e cerchiamo magari di essere aperti anche a nuovi sapori.

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