Un antico adagio sempre molto attuale recita che non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione.

Capirete quindi con quale attenzione io e la mia collega Rachele ci siamo preparate ad un evento di settore di qualche giorno fa, durante il quale avremmo avuto occasione di incontrare nuove possibili aziende clienti.

Format dell’incontro il business matching: slot di venti minuti che si susseguono a ritmo incalzante per tutto il giorno, una via di mezzo tra uno speed-date e le meccaniche à la Tinder – l’azienda prospect che ti interessa la incontri unicamente se anche questa ha segnalato in precedenza di corrispondere l’interesse, alla faccia del Super Like!

Il tempo a disposizione per raccontare chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo proprio così è poco e la possibilità che i nostri interlocutori abbiano sentito venti minuti prima le stesse parole uscire dalla bocca di un competitor è altissima.

Ci siamo chieste quali carte avremmo potuto giocare in un contesto del genere.

Dato già un allestimento dello stand curato dai colleghi del team creativo nei minimi dettagli, un company profile nuovo fiammante, i gadget delle nostre campagne self-promo come testimonianza fisica di tutta la nostra expertise e – last but not least – un look studiato per settimane, cos’altro avrebbe potuto fare la differenza?

La risposta me l’ha suggerita proprio Rachele, la collega che mi avrebbe affiancata all’evento e che qui a copiaincolla si occupa di sviluppo new business: “dobbiamo chiedergli a bruciapelo cosa ci fanno qui” mi dice “e poi ascoltare”.

Chiedere, ascoltare.

Dopo tanto tempo sprecato a perfezionare il “discorso giusto” per presentare la nostra agenzia, mi rendo conto che in un contesto popolato da voci pronte a sciorinare le proprie capacità, un soggetto che domandasse – anziché affermare – avrebbe quantomeno stimolato una reazione diversa da uno sbadiglio.

Così è stato: superato qualche istante di iniziale smarrimento, i marketing manager e i responsabili della comunicazione che si sono seduti al nostro tavolo sembravano gradire il fatto che fossimo interessati a sentire cosa avevano da dire, piuttosto che recitare loro l’ennesimo elenco di servizi offerti. Questo ci ha consentito di capire un po’ meglio chi avevamo davanti in quel momento, quali fossero le necessità e i “temi caldi” e in questo modo poter raccontare qualcosa di davvero rilevante per il nostro interlocutore.

Da qui viene spontaneo ripensare tutte le interazioni agenzia-cliente e rivederle in questa chiave di maggiore ascolto: sembrerà un’ovvietà, ma le dinamiche della relazione cliente-fornitore non si discostano molto da quelle di qualsiasi altra relazione tra amici, congiunti, amanti.

Forse vi state chiedendo se la mia sia voglia di edulcorare un po’ la quotidianità lavorativa, se sia necessità di mettere un po’ di romanticismo in processi che in fin dei conti sono fatti di mail, telefonate, preventivi.

La realtà è un po’ più prosaica: se il nostro obiettivo è continuare a farci scegliere in un mondo che contribuiamo a riempire di messaggi, dobbiamo affinare sempre di più le nostre capacità di ascolto e comprensione dei bisogni di quelli che siedono aldilà della nostra scrivania.

Abbiamo ascoltato tante storie tutte diverse ma simili e concentrandoci sulle parole degli altri anziché sulle nostre, non solo abbiamo capito cosa potevamo offrire a queste realtà per risolvere i loro problemi hic et nunc, ma ci siamo fatte anche un’idea di quelli che – più macroscopicamente – sono i bisogni delle aziende in quest’epoca ormai “matura” per tutto quello che è attività di comunicazione. E scusate se è poco!