Un venerdì come un altro.
Mattina.
Nonostante il sole fosse ancora basso, nell’aria si respirava già l’afa estiva, che entrava in punta di piedi tra le tende della finestra.

Al terzo tentativo d’allarme della sua sveglia prepotente, Havana si svegliò sbuffando e scalciando appena sulle lenzuola, avvolte tortuosamente attorno al busto dopo la lotta notturna.

Peccato. Aveva provato, per un attimo, a restare aggrappata a quello che sembrava essere un bel sogno, per quello che ricordava. Man mano che la realtà si faceva più nitida, iniziava a sembrarle quasi una barzelletta. Nonostante questo, a differenza degli ultimi sogni prodotti dalla sua psiche, quasi sempre frutto di bizzarri melting pot di pensieri della giornata precedente, quel sogno le aveva incuriosito il risveglio con una trama abbastanza avvincente da poterle dedicare altri cinque minuti di confronto riflessivo-passivo con il soffitto. E con i suoi ricordi, quelli veri e un poco meno esilaranti.

Doveva trovarsi da qualche parte in Oriente. Sud Asia, a giudicare dai colori vivaci e dai profumi magnetici che deambulavano fugaci nella sua mente. Lo scenario generale le rammentava Kathmandu. Di quel viaggio, più di ogni paesaggio caratteristico, le erano rimasti impressi gli occhi del Buddha disegnati su ogni faccia della grande cupola dello stupa di Boudhanath. Quello sguardo monumentale ed intimidatorio l’aveva lasciata col fiato sospeso, dapprima appena spaventata, poi scocciata, infine commossa. Pareva che quell’imponente paio d’occhi fosse lì dalle origini dei tempi ad aspettare il suo arrivo, ad attendere il momento del suo passaggio per ascoltare la sua storia. Ma lei, quella storia, non l’aveva ancora vissuta. Anzi, a dirla tutta iniziò proprio in quel momento.

Stava cucinando – se così si può dire anche di quando si riscalda un surgelato – la bistecca che avrebbe portato come pranzo a lavoro. Erano passati circa vent’anni dalla visita in Nepal, quando interruppero il palinsesto mattutino per annunciare che quegli occhi effigiati che non era mai riuscita a dimenticare avevano assistito ad un terribile terremoto. Tutto prima o poi ha una fine, aveva pensato. Ma sapeva benissimo che quando finisce qualcosa, una traccia resta sempre. Fa parte del dna dell’uomo, lasciare tracce. Una storia d’amore, per esempio. E qualsiasi altra cosa iniziata bene e poi finita male. Non sarebbe più facile non ricordarla affatto e ricominciare? O siamo così legati a quell’eredità? A quella volontà di fare sport e di abbandonare vizi, di iniziare nuove cose per smettere di fare vecchie cose e per non pensare ad altre cose? Di dedicarci a tutt’altro, di condurre una vita nuova escludendo quell’impronta lasciata da qualcuno che non c’è più nello spazio e nel tempo che viviamo?

Rilancio. 

Tornando allo sguardo del Buddha, dovete sapere che Havana era solita sentirsi sotto accusa di fronte a tutto e tutti, poco importa che fosse un amico, un parente o gli occhi di un asceta a cui nemmeno credeva. Rispondeva agli sguardi scrutanti con sguardi sfidanti. Occhio per occhio, possiamo dire. Era capace di mantenere uno sguardo senza sbattere ciglio così a lungo che distoglierlo dal suo diventava la pretesa di chi aveva cominciato. Si proteggeva in tutti i modi. Tentava di soccorrere una vulnerabilità radicata. Come si fa quando si dorme con la luce accesa, come si crede di fare quando si chiude un diario segreto con un piccolo e labile lucchetto. Eppure ci era tornata, in Nepal. Poco dopo quel terremoto. Lo sguardo del Buddha era cambiato, o almeno era quella l’impressione che lei aveva avuto. Quello del cambio di espressione fu il momento della sua metamorfosi. È stata quella sensazione opposta a quella della sua prima visita che ha fatto realizzare ad Havana di non essere più innocente, di non essere più esente dal giudizio.

Tornando al sogno e alle sue atmosfere ipnotiche, l’altra cosa interessante, oltre al dove, era il chi. Ricordava un’altra persona oltre a lei, ma non era stata sufficientemente pronta a catturarne i tratti entro il risveglio. Uff. Havana era già molto annoiata, nonostante fosse sveglia da pochi secondi. In effetti lo era quasi sempre. Non starò qui a raccontarvi del perché lo fosse; la sua storia prima di questo momento è un’altra storia. Sappiate solo che era così. Quel vecchio televisore che le aveva annunciato del Nepal, ad esempio. Sapeva che quando avrebbe smesso di funzionare non l’avrebbe mai sostituito. Perché era un vuoto che non le interessava riempire. Eppure Havana tentava ogni giorno di riempire i suoi vuoti. Amava i Classici. Leggeva chi aveva scritto, osservava chi aveva dipinto, ascoltava chi aveva composto. Per lei erano antidoti al veleno che assorbiva dal mondo e che respirava dalle persone. E credetemi quando vi dico che ci provava davvero, ci provava con tutta sé stessa. Analizzava con un’attenzione microscopica le più svariate teorie e si concentrava a tramutarle nelle più produttive tecniche. E ci riusciva. Perché il suo era un potenziale nascosto da scelte immorali.

Rilancio.

La verità era, infatti, che Havana avrebbe dovuto fare una scelta, anzi, molte scelte. Prima tra tutte quella di coesistere con drammi e violenze del suo tempo senza sentirsi in colpa. La scelta di sentirsi assolta, almeno in parte, da quel suo egoismo malsano che la faceva interrogare su chi sarebbe diventata, col passare del tempo, se avesse continuato a sguazzare noncurante tra i privilegi che fortuna e famiglia le avevano garantito. Ecco, Havana cercava questo: l’assoluzione. Non da un Dio, non da altri. Dal suo egoismo, dalle sue scelte, da sé stessa. Sono le guerre peggiori, quelle contro noi stessi.

E tutti quei tentativi di riempimento erano solo scusanti di procrastinazione. Per permetterle di continuare a smettere. Havana smetteva le persone. E ricominciava. Pareva condannata a tessere relazioni di una fragilità perfetta. Ancora, ancora e ancora.

E nonostante rilanciasse costantemente i dadi, finiva per fare sempre le stesse scelte. E le stesse cose. Collezionando tracce di altri nel suo cuore, sognando il Nepal e quello sguardo di un Dio che, per la prima volta nella sua vita, l’aveva giudicata.