Trenta, trentine, treni

Ho compiuto 30 anni.

In questi trent’anni ho scoperto un sacco di cose.

Che il pepe nero, quello bianco e il verde vengono tutti dalla stessa pianta, che (SPOILER!) Santa Lucia è la mamma, che una lumaca ha circa 25.000 denti. Cos’è la permuta. Che se trattieni uno starnuto muori. Che i vestiti di quando avevo 20 anni non mi entrano più. Che più passa il tempo più le occasioni scivolano via dalle mani come saponette in doccia.

Io sono una masochista delle occasioni perse.

Dico sì a cose a cui dovrei dire no, dico no a persone a cui dovrei dire sì.

A Valsoia continuo a dire no, comunque.

A portarmi nel preciso punto in cui sto scrivendo questo pezzo, a copiaincolla, è stato un no che fino al giorno prima sarebbe stato un “sì, cavolo!”.

Sul finire di novembre di ormai otto anni fa, la mia ex coinquilina trentina mi aveva invitato alla sua festa di laurea, un’occasione buona per festeggiare insieme anche il mio compleanno, che cadeva proprio in quei giorni. Per capire quanto fosse importante per me quell’occasione apparentemente solo mondana e frivola non c’è tanto bisogno di evidenziare quanto io sia un animale sociale quanto piuttosto va sottolineato che non avevo avuto un giorno di congedo “ufficiale” dalla mia vita fuori sede in quel di Verona.

Ero dovuta rientrare a casa di fretta parecchi mesi prima della fine dei miei studi. Il giorno del rientro avevo perso due treni: uno di quelli che ripassano, il Verona Porta Nuova-Mantova e uno di quelli che non ripassano più.

Per andare a quella festa mi sono trovata di nuovo davanti a un treno che potevo prendere e a un altro che avrei perso. In quel momento ho scelto di non salire e partecipare invece alla prima lezione di un corso intitolato “Il mestiere del copywriter” che si teneva a pochi passi dalla stazione di Mantova. Nonostante fosse un giorno qualunque, quel giorno è stato per me quello che ha realmente decretato la fine dell’era delle giornate sui libri e delle serate sui tavoli e l’inizio di un percorso lavorativo.

Il ritorno ufficiale a casa era stato anche il ritorno nel caldo di un tipico luglio nella bassa mantovana e nell’umidità di un futuro incerto. Perché non è il futuro, è l’incertezza.

Ora questo non è lo spazio e oggi non è il tempo di entrare nel merito di quanta incertezza e quante abitudini siano radicate dalle piante dei miei piedi alla mia corteccia prefrontale, ma vi basti sapere che quel ritorno da figliol prodigo non era affatto nei miei piani.

Non sono mai stata una grande pianificatrice, ma l’obiettivo di massima era di studiare Lingue e culture per l’editoria e trovare un lavoro che avesse a che fare con l’inglese e con i libri. E se fosse andata peggio del previsto con almeno uno dei due. Il sogno universitario. Studiare quello che ti fa meno schifo per andare a fare quello che più ti piace. Che poi è un sogno che ci hanno instillato i nostri genitori, non è che ce lo siamo inventati noi studenti. “Studia che altrimenti ti tocca andare a lavorare in fabbrica”, “Studia perché io, tuo nonno e il tuo bisnonno e il padre del tuo bisnonno non abbiamo avuto questa opportunità”, “Studia quello che vuoi, basta che studi”.

Lavoro nero e lavoro vero

Durante lo studio lavoravo in un lounge bar della zona.
Che per me era quel tipo di lavoro che si fa quando si cerca un altro lavoro. Quell’altro lavoro per cui hai passato notti in bianco in vista delle sessioni d’esame dicendo no ad aperitivi e serate.

Le mie amiche lavoravano dal lunedì al venerdì e uscivano nei weekend. Io lavoravo nei weekend e cercavo lavoro dal lunedì al venerdì.

In quattro mesi avevo spedito quattromila curricula, ma zero incontri faccia a faccia. Mia mamma non mi ha mai detto quelle frasi che si dicono ai figli quando iniziano a passare troppi giorni tra la corona di alloro e un colloquio di lavoro. Il “devi trovarti un lavoro” era un “voglio trovarmi un lavoro”. Ma mica perché fossi più furba di altri.

È che non volevo comprarmi le sigarette con la mancia che mia nonna Rosa mi dava per il gelato.

Questione di indipendenza. Indipendenza per finanziare le mie dipendenze.

Del corso di copywriting mi era piaciuto proprio che venisse chiamato “mestiere”, mi sembrava una cosa da grandi.

Io nemmeno sapevo che fosse un mestiere.

Lo avevo scoperto dall’annuncio su una piattaforma di recruiting, avevo cercato la definizione e letto qualche articolo al riguardo.

Avevo fatto un giro di ricognizione su quali agenzie o aziende fossero alla ricerca di quel tipo di risorsa per poi spedire a tappeto il mio tristissimo CV standard in formato europeo. Ho scoperto solo dopo che esistevano curriculum tristi e curriculum meno tristi, e che i posti in cui stavo facendo domanda erano più per i secondi.

Il mio collega Diego, allora l’unico copy di copiaincolla e oggi molto più di quello, qualche tempo fa mi ha confidato che è quasi un caso che il mio curriculum non sia stato cestinato all’istante. E che l’avrebbe fatto se sulla sua scrivania ci fosse stata una pila molto alta di CV. Fortunatamente il primo round di colloqui era terminato da poco e quindi era un momento buono per fare irruzione.

Alla seconda lezione del corso conosco una ragazza di cui non ricordo il nome ma a cui devo parecchio. Rachele? Forse Paola.
Ci accordiamo per guidare una volta ciascuno essendo entrambe piuttosto vicine tra noi e parecchio lontane dalla sede del corso.

È il suo turno. Facciamo una strada diversa. Passiamo davanti a un edificio grigio con una grande scritta bianca “copiaincolla” e mi dice “quella lì è una bella agenzia e stanno cercando un copy”.

A mezzanotte torno a casa e atterro su un sito in cui una donna bionda in un vestitino a strisce bianco-rosse mi offre dei popcorn.

Navigo il sito e capisco il perché dei pop corn. Uno spettacolo.

E mi dico: io voglio lavorare lì. Alle due di notte invio lo stesso CV che non aveva nulla in comune con l’anima creativa che sprizzava da quel circo.

Lavorare in un’agenzia indipendente mi ha permesso di diventare altrettanto indipendente.  Qui dentro mi sento davvero questi trent’anni sulle spalle. Ma è una bella sensazione.

È una bella sensazione trattarsi da trentenni. Oltrepassare l’incarico. Fare di tutto per non perdere treni e occasioni.

Crearsele.

Perché a trent’anni non puoi pretendere che siano sempre gli altri a offrirti qualcosa. Qualche giro lo devi pagare anche tu.

È una bella sensazione anche essere trattati da trentenni. Maggiori responsabilità. Tanto ascolto. Infinite riflessioni. Sfoghi. Condivisione. Perché indipendenza in un’agenzia indipendente non vuol dire lavorare in solitaria, ma l’esatto opposto. È un’indipendenza collettiva.È consapevolezza che le scelte di uno si riflettono su tutti. È autogestirsi, ma saper gestire le esigenze degli altri. È libertà, ma senza opprimere i colleghi. È il mattone, che da solo è solo quello e che solo insieme crea concretezza. E crea copiaincolla.

Trenta, per chi non si accontenta

L’autonomia fuori dal lavoro, invece, faccio ancora molta fatica a trovarla e ho ancora parecchie dipendenze su cui lavorare.

Per esempio, il fumo. Sebastiano, padre fondatore di copiaincolla e padre ex fumatore, cerca di farmi smettere di fumare praticamente da prima che iniziassi.

Ahimè, le mie dita colme di domande non risposte hanno ancora molti posacenere su cui pressare mozziconi.

Non che mi illuda di trovare le spiegazioni che cerco in una sigaretta. Ma mi aiuta a pensare. O perlomeno mi illude che sia così.

Altrimenti che dipendenza sarebbe. Uno potrà averla una contraddizione nella vita, no?!

Per esempio, le finestre. Non sono capace di chiudere correttamente le ante dell’appartamento in cui vivo senza appoggiarmi alla mia metà.

Nonostante queste due cose, sono felice di avere trent’anni e sono contenta di averli a copiaincolla.
Sono contenta che il mio lavoro non c’entri nulla con quello che ho studiato. Dopo otto anni mi piace ancora pensare a quel giorno in cui dicendo no non ho perso l’occasione di crescere.

In questi trent’anni ho scoperto un sacco di cose. L’ultima è che se le mie indipendenze aumentano in maniera direttamente proporzionale ai miei radicali liberi allora beh, invecchiare non è poi così male.

Scusa Olly per non esserci stata alla tua laurea, scusa treno per averti voluto perdere, scusa Diego per quel curriculum triste. Grazie mamma per non avermi cacciato di casa. Grazie copiaincolla per avermi reso indipendente. E grazie Rachele. O forse Paola.