Le parole non dette, ma scritte sul web e sui social network

Avete mai fatto caso che quando qualcuno ci chiede un difetto, tendiamo sempre a dire un pregio?
Tipo “sono troppo sincera” oppure “sono troppo buona”.

Ecco, il mio non-difetto è che ho molta fiducia nel genere umano, questo nonostante abbia avuto più di un’occasione per ricredermi.

Tendo sempre a pensare che le persone siano migliori di ciò che – spesso – in realtà sono.

E quindi trovo assurdo quando sento o leggo determinate cose o assisto a determinati comportamenti.

Per esempio quando leggo i commenti ai post o agli articoli su facebook.

La mia fiducia nel genere umano nonostante tutto, mi porta a pensare che Mark Zuckerberg quando creò facebook nel 2004 non avesse programmato che diventasse così com’è oggi.

E cioè il più grande agglomeratore di polemiche. Una sorta di Trivago della polemica.

Se c’è qualcosa che non ti va giù, puoi stare tranquillo che su Facebook esiste sicuramente un gruppo con altre X persone che la pensano come te, che si fanno forza l’un l’altro e si muovono come un “branco” commentando, recensendo, spammando sui profili degli altri perché, hey, vorrai mica pensarla diversamente da loro.

Su Facebook, purtroppo o per fortuna, tutti possono dire la propria.

Se da una parte c’è l’inalienabile libertà di espressione, dall’altra ci dovrebbe essere l’altrettanto inalienabile libertà di non dire nulla quando non si conosce una cosa.

Il famoso “tutti tuttologi col web” di Occidentali’s Karma riassume perfettamente il concetto. Siamo improvvisamente diventati tutti medici, politici, dietologi, psicologi, sportivi i famosi “laureati presso l’università della strada” o “impiegato presso me stesso”.

Il problema è che sembra che nessuno abbia calcolato che, ormai (purtroppo o per fortuna) dire una cosa su Facebook – o sul web per allargare il concetto – equivale a urlarla in piazza davanti a tutti.

La condivisione è il nuovo passaparola.

Nessuno ha calcolato che, anche se siamo nascosti dietro a un monitor, le parole hanno un peso. Quella frase scritta di getto per criticare un articolo, un post, una foto si schianta sulla persona che la riceve e non si può mai sapere l’effetto che quelle parole avranno. Perché un conto è la famosa critica costruttiva, un conto è vomitare parole senza possibilità di replica, senza possibilità di apertura verso un’inevitabile difesa da parte della persone che le ha ricevute. Per non parlare dell’insulto vero e proprio. A che pro?

Tempo fa, un articolo di questo blog è stato commentato su un social con “(…) spero che sua mamma la faccia a pezzi con la mannaia”. Ora, era veramente necessario? Voglio dire, cosa c’è di costruttivo in un commento del genere? Come si replica a un commento del genere? Ma soprattutto, questa persona avrebbe davvero il coraggio di dire determinate cose in faccia all’autore dell’articolo? E se sì, con quali argomentazioni?

Questo mio discorso ovviamente non è limitato a Facebook che, per carità, tolti i famosi leoni da tastiera è anche un mezzo di comunicazione molto efficace, se non IL mezzo di comunicazione più utilizzato negli ultimi anni.

Il caso Trip Advisor

Pensiamo a TripAdvisor. Ho letto spesso critiche che di costruttivo avevano ben poco. Parole pesanti, scritte senza pensare che dietro al nome e al profilo di un ristorante o di un hotel ci sono delle persone che lavorano costantemente per mandare avanti la famosa baracca. Persone che magari lottano ogni giorno per far quadrare i conti, per offrire il miglior servizio possibile ai propri clienti. O semplicemente persone. Esseri umani.
Vale davvero la pena rischiare di rovinare la reputazione di un hotel o di un ristorante solo perché non si è gradito il colore delle tende?

Persone che dedicano la vita a fare un lavoro che amano, per poi ritrovarsi una media bassa per tre critiche sterili senza fondamento.

Sono le stesse persone che, a fine cena (o a fine soggiorno), quando viene chiesto loro “tutto bene?” rispondono “sì, benissimo grazie!”. E poi sbam, recensione da una stellina con argomentazioni discutibili.

Ma non sarebbe meglio parlarsi direttamente?

Come siamo diventati così? Sembrano discorsi che avrebbe potuto fare mia nonna tanti anni fa. Eppure mi rendo conto che è assurdo che la comunicazione ormai sia diventata digitale, invece che verbale.

Siamo arrivati al punto che anche tra vicini di scrivania in ufficio, tra fidanzati sul divano, tra compagni di banco a scuola ci si scrive su Whatsapp o su Facebook quando basterebbe girarsi e dire “hey, vorrei dirti che…”.