Quando ero piccola avevo due certezze: nella vita volevo scrivere e volevo una casa fatta di caramelle.
Sciroppo di glucosio, zucchero, latte concentrato zuccherato, olio di arachide, siero di latte in polvere, latte scremato in polvere, burro anidro, nocciole, mandorle, armelline, aromi, lecitina di girasole, cioccolata bianca. Uniscili e avrai una Rossana. Provala e avrai un’epifania joyciana, un assolo di David Gilmour, il gol di Baggio ai Mondiali di Italia ’90, il multiball del flipper.
Le caramelle su di me hanno un potere allucinogeno. Caramelle miste della bancarella al mercato, disoccupati che arrivavano solo a Santa Lucia. Tutte quante. Papille gustative, segnali al cervello, produzione di ormoni, sensazioni di infinito benessere, mia nonna Lina.
Mia nonna Lina non sarebbe nemmeno mia nonna bensì la mia prozia, ma che per tutta la famiglia è sempre stata “la nonna” e che è sempre stata la nonna di tutta la famiglia. Anche lei amava le caramelle. Ne aveva di parecchi gusti e a volte potevi trovare quelle dure ripiene alla frutta, altre volte le mou al caramello, altre volte ancora quelle gommose alla menta che si attaccavano ai denti peggio delle pellicine dei popcorn. Le teneva in una zuppiera e ne metteva solo alcune in un barattolo in rame sopra alla credenza più alta di tutte le credenze, in modo che noi cugini facessimo meno razzia. I barattoli, poi, erano tre della stessa famiglia ma di misure differenti. Erano disposti in ordine crescente e solo uno conteneva le caramelle, ma nessuno sapeva mai quale fosse. Come il gioco dei 3 bicchieri. E per noi era davvero un gioco, anzi una sfida vera e propria. Raggiungerle senza che fosse lei a tirar giù il barattolo a piano terra era una sfida ardua. Bisognava prendere una sedia e salirci sopra – e già lì se ci beccavano erano guai – e poi allungarsi allungarsi allungarsi fino a raggiungere il trio di barattoli. Poi, se ne analizzava uno alla volta per capire se era quello giusto o se era quello vuoto. Le caramelle e mia nonna Lina erano le uniche cose belle in giornate mortalmente noiose in un paesino dell’alto mantovano in cui non succedeva quasi un cazzo.
Credo che per mia nonna Lina le caramelle fossero l’unico sgarro alimentare in una vita totalmente dedita a Dio. Tutto il resto della sua routine sembrava un loop infinito di Bucaneve in tubo nel mobile del soggiorno, pasta all’olio e carote rigorosamente senza sale durante i pasti infrasettimanali, torta margherita ogni domenica (per la quale ci vorrebbe un capitolo a parte), tè elisabettiano delle 5.
A casa della nonna Lina ho imparato a leggere. E poi a scrivere come nei libri che portavo a casa dal suo salotto, che rispecchiava appieno il suo stile di vita ordinario e consacrato. Tutto era perfettamente classificato e ogni oggetto era simmetricamente disposto. Pareva di essere davanti a un’inquadratura di Wes Anderson. Un divano verde oliva sulla sinistra, un grande tavolo che aveva l’aria di non essere mai stato utilizzato al centro, una cassapanca in mogano a destra che ho sempre desiderato aprire ma che non ho mai osato sfiorare perché la parola della nonna Lina era come la parola del Signore.
Mi spaventava un po’ quella stanza e credo di non essere stata l’unica perché non ci entrava mai nessuno dei miei parenti. La paura durava pochi attimi, solo fino a quando tirando un po’ le ante di un imponente mobile che nascondeva l’intera parete, le guide si riaccomodavano e improvvisamente si sprigionava un profumo di carta che riempiva il naso quasi come quelle gommose alla menta riempivano la bocca. E quella stanza diventava la mia personalissima biblioteca per qualche ora, fino all’arrivo di mia mamma che ritrasformava la carrozza in zucca.
Simmetrie in Moonrise Kingdom
Oltre ai grandi classici, a casa di mia nonna Lina leggevo Popotus, che era un inserto di Avvenire strutturato come un quotidiano, ma per bambini e in cui a raccontare le notizie di attualità era un ippopotamo cronista. Io avrò avuto 8 anni e lei, che allora era già vecchissima, aveva iniziato a conservare ogni uscita solo per me, perché una volta avevo detto davanti a lei che volevo fare la giornalista. E quello era il suo modo di darmi il suo appoggio, nonostante continuasse ad infilare tra un inserto e l’altro qualche libricino sulla vita di Rita da Cascia e di altre donne che avevano fatto la storia del cattolicesimo nella speranza che mi facessi suora. Non ho mai capito perché non si fosse fatta suora lei. Dovrei chiederlo a mia nonna Vittorina. Le guardavo, sedute al tavolo in legno del soggiorno. Mia nonna, quella vera, regina indiscussa delle parole crociate. Mia nonna Lina, invece, quella dei quotidiani per grandi. Le guardavo, dicevo, mentre sorseggiavano un bicchiere – non una tazza ma un bicchiere, anche piuttosto piccolo – di tè bollente. Molto bollente. Mi sono sempre chiesta come riuscisse a bere il tè a quella temperatura. Ogni giorno. Due cucchiaini di zucchero, una fetta di limone. Mi sono sempre chiesta anche se prima che morisse mio nonno, nel 1996, esistessero già queste tradizioni tra di loro o se, al contrario, fossero un modo di rendere quell’assurda convivenza tra mia nonna e la sorella di mio nonno meno assurda. Indubbiamente condividevano la fede. Entrambe erano devote. Ma per quanto riguarda in particolare mia nonna Lina, dire che fosse devota è davvero un eufemismo.
Basilica di Santa Rita da Cascia, accidentally Wes Anderson
Io, appena terminati i sacramenti, ho rimosso la mia amicizia con Dio e ho smesso di frequentare la Chiesa per i troppi sensi di colpa. Troppe caramelle, troppe poche preghiere. Poi ho scoperto Harry Potter e ho abbandonato anche Popotus. Lei non ha mai smesso di conservare ogni copia e di prepararla per il mio arrivo su quel tavolo di legno, e io spesso la portavo a casa solo perché non si creasse un effetto torre di Pisa di carta riciclata nel loro soggiorno.
Non che avessi smesso di leggere. Avevo solo smesso di leggere Popotus. Perché non mi interessava più, nonostante molto spesso fosse fantasioso quanto Harry Potter. Volete mettere Harry vs Voldemort e San Giorgio vs Goku?
Harry Potter, invece, non ho mai smesso di leggerlo. La mia dieta culturale prevede 70 grammi al giorno di film che ho già visto, stesso album a ripetizione e qualche pagina della saga di Harry Potter. A caso, di uno dei sette libri a caso, in un capitolo a caso. Mi sono sempre sentita in colpa per questa dieta culturale. Perché mi restano solo 30 grammi di libro che ho iniziato due anni fa, di album inedito di quell’artista, di film che forse nemmeno mi piacerà. Ma è il mio rituale.
Lo faccio perché per me ha lo stesso potere allucinogeno delle caramelle, che mi facevano andare in tilt il cervello con il loro gusto e allo stesso tempo mi rilassavano grazie alla maestosa e calma vita di chi me le regalava.
Alla fine non ho fatto la giornalista, ma la copywriter pubblicitaria. Comunque sia, questo lo devo anche a lei. E ancora oggi se sono incasinata, se ho avuto una giornata di merda, se voglio rilassarmi, leggo Harry Potter. O ascolto la stessa canzone trentacinque volte. O guardo lo stesso film che conosco a memoria.
Oppure mangio un’infinità di caramelle e penso a mia nonna Lina, a Popotus e a quella stanza simmetrica. E così facendo, in una giornata come oggi non vedrò mai un venerdì 13 ma vedrò sempre Santa Lucia.