Cronache di un data analyst emigrato in Emilia
Esiste un mondo, più o meno sommerso, più o meno complicato, più o meno ramificato, che convive tutt’oggi, in maniera più o meno tangibile, con il mondo orchestrato dalla nostra lingua madre, sua maestà la lingua italiana.
Una lingua onorata ed esaltata dai più grandi scrittori e poeti del belpaese nel corso di secoli di storia; una lingua magnifica, sublime, a volte tutt’altro che essenziale, una lingua musicale e ritmica; ma una lingua anche spesso bistrattata, violentata e, recentemente, ridotta all’osso e distorta da alcuni linguaggi, come ad esempio quello degli sms e delle chat.
Questo mondo “parallelo” è il mondo dei dialetti. Una risorsa inestimabile, ricca, variegata, fantasiosa, che rappresenta le mille sfaccettature della nostra popolazione, ricalcandone usanze, abitudini, modi di dire e modi di essere.
In Italia è difficile fare un conteggio preciso di tutte le variazioni linguistiche parlate. Se alla base può esistere una radice comune, in realtà basta spostarsi di pochi chilometri da un paesino all’altro per notare impercettibili eppure significative differenze tra una parlata e l’altra, manifestate in termini di vocaboli o cadenze leggermente diversi.
Nato e cresciuto in una famiglia della provincia cremonese in cui, per abitudine, si parlava quasi esclusivamente il dialetto, questo rappresenta per me una risorsa (se vogliamo fine a se stessa), ma sicuramente parte del bagaglio culturale personale; il dialetto diventa anche strumento che veicola ricordi, memorie di momenti passati in famiglia, lieti e meno lieti, di litigi con gli amici per un pallone o di chiacchierate spensierate il sabato sera, di fronte ad una birra, a parlare di calcio, basket, ragazze…
Il dialetto, inoltre, è appartenenza, è riconoscersi parte di una comunità, di un territorio. Quante volte vi è capitato, da ragazzini, di trovarvi a “discutere”, impugnando la spada del campanilismo, con coetanei di un paese vicino? E magari sfoggiando, ciascuna delle parti, un’arte linguistica fatta di sfumature e pennellate tipiche del proprio territorio? Conoscere il proprio dialetto è lo strumento più forte per sentirsi parte di una comunità. Senza dubbio.
Naturalmente capita poi nella vita di abbandonare le proprie origini e, con esse, l’uso del dialetto locale. È un cambiamento forte, ma necessario. Lasci il tuo paese, lasci le persone e i volti noti, lasci il panettiere che sa tutto di tutti, lasci la botteghina più cara della zona. Lasci il ricordo di una lingua utilizzata in più di un’occasione, quel dialetto spesso abusato, specialmente in famiglia.
Arrivi in un territorio nuovo, paese nuovo, persone e volti nuovi, usanze diverse, panettiere diverso, la botteghina cara – chissà come mai! – quella è la stessa. Dialetto diverso. Ecco, il guastallese per me è una lingua nuova, fatta di spezie aromatiche con sentori di mantovano su una base di mappazzone reggiano. Ma che lingua è?!?
Ammetto di essermi trovato piuttosto spaesato, specialmente quando, per strada o nelle botteghe, l’anziano di turno sciorina con nonchalance termini del tutto nuovi per le mie orecchie. Ma ripensando al dialetto come risorsa culturale, è indubbio che sia forte in me una grande componente di curiosità. La sfida è quella di arrivare, negli anni a venire, a padroneggiare con sicurezza termini, modi di dire e cadenze tipiche di questo territorio. Sì perché anche questo dialetto deve entrare a far parte del mio bagaglio culturale, per la mia personale curiosità e voglia di conoscere, e per sentirmi ancora più parte di questo bel territorio, fatto di campagne, un grande fiume, buon cibo e persone radiose.
Chiudo con un piccolo test tutto per voi. Chi indovina il significato dei seguenti modi di dire guastallesi, vince… una pacca sulla spalla e un bel “Bravo!!”.
- Agh an vé ‘na gamba
- Brüsàr al paión
- Gri só da ‘l opi
- Mulàr ‘na gasa
- Vultàr i pé a ‘l ös
Nota: i modi di dire sopra citati sono presi dal libro “Elementi di grammatica del dialetto guastallese”, di Luigi Pietri