Come avrete probabilmente intuito dagli ultimi articoli usciti su Tavolobrain, ci siamo trasferiti.

Era da tempo che rispondevamo che “ci stavamo trasferendo” ad ogni offerta commerciale telefonogasluceacqua e finalmente l’abbiamo fatto. Ci siamo trasferiti nell’Ufficio Nuovo.

Nonostante faccia di tutto per nasconderlo, non amo particolarmente i cambiamenti: si fa così fatica a costruire delle routine funzionali e funzionanti, poi questi arrivano – capitano – e ci si ritrova a dover ripensare tutto da capo. Un pensiero poco smart, me ne rendo conto.

L’ufficio precedente aveva sì dei limiti oggettivi, ma non era poi così male. Un po’ storico, un po’ stretto… Qualche problema di isolamento termico, sicuramente. Okay, più facile dire che mi ci ero affezionata e come ogni cosa a cui mi affeziono, mi trasmetteva sicurezza.

Questo per dire che pur non facendone un dramma, l’idea di un trasloco non mi entusiasmava. Men che meno all’inizio di un nuovo anno così importante, l’anno che doveva (e deve) risollevarci da un 2020 massacrante.

Ma se c’è qualcosa che il 2020 mi ha insegnato è stata l’importanza degli spazi.

L’arredamento non mi ha mai appassionato particolarmente, l’architettura è qualcosa che ho sempre solo studiato sui libri di storia dell’arte – o contemplato a naso all’insù a spasso per qualche avenida o qualche straße.

Vivere forzatamente degli spazi mi ha portato a fare caso a tante cose.

Le sedie del salotto così belle e comode, non erano poi così comode dopo otto ore. La stanza designata per l’allenamento domestico esposta a nord era decisamente più fredda delle altre. Quel riflesso che colpisce le piastrelle della cucina dopo mezzogiorno non lo avevo mai notato, perché non ero solita trascorrere il mezzogiorno nella cucina di casa mia.

Il 2020 mi ha lasciato dentro questa consapevolezza di come l’ambiente in cui mi trovo a fare qualcosa, condizioni effettivamente la riuscita di quello che sto facendo.

E questa consapevolezza l’ho realizzata per la prima volta quando, appoggiato lo scatolone sulla scrivania ancora vuota e impolverata, ho mosso i primi passi nell’Ufficio Nuovo.

La luce.

 

Questa è sicuramente la prima cosa che mi ha colpito: l’Ufficio Nuovo è pieno di luce, una luce sempre diversa, che cambia in base all’ala in cui ci si trova e all’ora del giorno.

C’è la luce diretta che entra nell’area amministrativa e ci resta per tutta la mattina, quella diffusa e lattiginosa della grande sala comune, i fasci di luce che si intersecano nei due volumi del “Cubo” open space. E poi ci sono le luci artificiali, bellissime e anch’esse tutte diverse.

Mi sono ritrovata a spostarmi da una scrivania ad un tavolo, da un divano ad un’altra postazione in base al tipo di luce che più si adattava al task su cui stavo lavorando.

Preferisco le ombre allungate del muro della mia postazione, solo lo schermo a illuminarmi la faccia quando sono alle prese con qualcosa che mi richiede massima concentrazione. Se invece devo trovare soluzioni, dondolarmi tra un concetto e l’altro, allora ho capito che tanto più è luminosa la stanza tanto più le idee fluiscono veloci.

Così come mi sono ritrovata a preferire un angolo della “Salona” alla mia postazione “canonica” perché mi permetteva di buttare un occhio sul verde della siepe, in quel momento fonte di concentrazione.

Oppure, sprofondare stesa su un divano con gli occhi al soffitto si è rivelato indispensabile al parto di quell’idea, così difficile da elaborare seduta alla scrivania.

Anche la tipologia di seduta conta, ecco.

Niente di nuovo sotto la luce (bellissima e multiforme!) del sole: che l’ambiente determini il nostro successo ce lo spiegava già Darwin ai tempi del suo viaggio alla Galàpagos, ma un conto è studiarlo sui libri di biologia e un conto è esperirlo di persona, sulla propria pelle, respirando l’odore della vernice fresca sui muri.

Ed è così che ho provato a far pace con questo cambiamento, mi immagino il primo di una lunga serie: un passo dopo l’altro, in questi spazi così pieni di luce e di ispirazione.