Come noi abbiamo cambiato i social media
Ci aiutano a trovare amici vecchi e nuovi, l’amore, un nuovo lavoro, una pizzeria ancora aperta quando si fa tardi: i social network sono ormai da anni parte integrante del nostro quotidiano. Un po’ come l’automobile, le batterie portatili, l’asciugatrice.
Ogni giorno si sprecano i pareri più contrastanti riguardo a questi strumenti digitali e al modo in cui avrebbero cambiato in peggio il tessuto sociale – siamo più egoisti, più soli, meno concentrati.
È davvero così? E chi sono, quanti anni hanno, dove vivono tutte queste persone oggetto di queste critiche?
Dev’esserselo chiesto anche Daniel Miller, antropologo e professore presso lo University College of London, che ho avuto modo di ascoltare recentemente all’interno della rassegna di incontri del festivalfilosofia di Modena.
Come mai postiamo sui social e che conseguenze ha davvero questo comportamento? Per darsi una risposta, Miller ed i suoi assistenti hanno passato più di un anno presso diverse comunità in giro per il mondo, col solo scopo di capire che utilizzo veniva fatto dei canali social.
Dalla Puglia al confine siriano, dalla Cina rurale a quella delle città-fabbriche, dai poli IT dell’India al Sud America, fino alle campagne inglesi: vivere fianco a fianco con la popolazione locale e vedere quanto la presenza online potesse influenzare la vita quotidiana, in contesti diversissimi.
A cadere per primo è il luogo comune secondo cui l’utilizzo dei social media ci avrebbe resi più individualisti e meno interessati agli altri.
La verità è che su scala globale questi canali hanno contribuito al mantenimento dei rapporti all’interno dei gruppi tradizionali come le famiglie allargate, i clan, le tribù – realtà messe a repentaglio dalle migrazioni e dai trasferimenti.
Che si tratti di minatori cileni o studenti tarantini fuorisede, il risultato è il medesimo: video chat e messaggistica istantanea accorciano le distanze e fanno pesare meno i chilometri.
In contesti in cui le religioni rappresentano ancora un motivo di separazione, Facebook rappresenta un playground neutrale in cui interagire e connettersi: in Brasile – continua Miller – i cristiani pentacostali non possono rivolgere la parola ai seguaci delle religioni creole locali, ma nulla vieta che possano diventare amici su Facebook!
Che dire poi di una ragazza turca impossibilitata a passare il proprio tempo con i coetanei dell’altro sesso se non sotto la stretta sorveglianza dei parenti, che grazie a Whatsapp può passare le ore a scambiarsi messaggi con il proprio fidanzato e coi propri amici? “Grazie ai social ho amici in tutto il mondo, anche se fisicamente non posso spostarmi da qui”. Già.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative nate tra i banchi di scuola che sfruttano i social network, a confutare la tesi che questi canali non siano altro che una fonte di distrazione per i ragazzi. Organizzazione dei materiali didattici, supporto nei compiti a casa, prevenzione dell’abbandono degli studi: sono tanti i gruppi Facebook e Whatsapp che coinvolgono i docenti, gli studenti e le loro famiglie, e che assolvono a queste funzioni.
Altrove, dove le condizioni rendono ancora difficoltoso l’accesso ad un’istruzione alla maggior parte della popolazione, la tecnologia e i social media possono costituire un buon mezzo d’apprendimento. Non ricorda anche a voi quanto capitava nel dopoguerra e negli anni Sessanta con i programmi Rai? Senza contare le volte in cui noi per primi ci siamo rivolti a piattaforme come YouTube per consultare veri e propri tutorial per svolgere attività di ogni tipo.
Un capitolo importante riguarda la privacy online: sempre più spesso ci preoccupiamo del gran numero d’informazioni che quotidianamente scegliamo di condividere con il resto del mondo.
Abbiamo volontariamente rinunciato alla nostra riservatezza?
Apparentemente è assiomatico, ma la realtà è che dipende dal contesto in cui ci ritroviamo a vivere offline. Miller ci fa riflettere anche sulle condizioni di vita che possiamo trovare in tante comunità rurali, in cui le famiglie sono abituate a condividere gli spazi abitativi: è raro che un adolescente o un giovane adulto possa disporre di una stanza tutta per sé. In questo caso il profilo aperto su un social network rappresenta una dimensione dove finalmente recuperare un po’ di quella privacy di cui è tanto difficile approfittare normalmente.
Queste sono soltanto alcune delle riflessioni che Miller ha condiviso con la platea (le altre le trovate online all’indirizzo: http://www.ucl.ac.uk/why-we-post/discoveries/).
Mi sono ritrovata a pensare a tutto questo anche nei giorni immediatamente successivi, sorpresa di quanto ancora una volta il punto di vista possa fare la differenza. Di come, in fin dei conti, non è vero che siamo stati cambiati dai social media – siamo noi che giorno dopo giorno riadattiamo questi potenti strumenti sulle necessità, sulle peculiarità, sulle intuizioni che caratterizzano la nostra esistenza offline.