Nel mezzo del cammin di nostra vita 1
Mi ritrovai in una selva oscura
Che la diritta via era smarrita

1 Di nostra vita: da un passo del Convivio (IV XXIII, 6-10) è quasi certo che Dante si riferisca all’età dei trentacinque anni, che erano considerati la metà esatta della vita di un uomo.

Chi siamo, da dove veniamo, ma soprattutto qual è il mezzo del cammin di nostra vita?
Chissenefrega, perché tanto c’avete la crisi di mezz’età a prescindere dalla vostra età. Ce l’avete sempre e ce l’avete tutti.

E non c’entrano una mazza giorni, ore e secondi di vissuto.

La maledetta selva oscura sono gli anni che stiamo vivendo.
La diritta via l’abbiamo smarrita nel modo in cui abbiamo scelto di viverli.

Innovazione, tradizione e gli anni d’oro del grande Real

Max Pezzali è un prestigiatore. Volente o nolente, i testi delle sue canzoni hanno congelato un’intera generazione e hanno trascinato le altre in quella. La sua nostalgia è diventata la nostra. Ha fatto rimpiangere i Roy Rogers come jeans a chi indossava gli Angel & Devil.

Momento aneddoto: una volta ho sentito qualcuno dire “Gli anni di Happy Days IN RIVA AL MAR”.

Quello che voglio dire è che sembriamo sempre amaramente sospesi tra il vecchio e il nuovo. Rimpiangiamo i tempi passati e speriamo in tempi migliori. Ammiriamo l’auto che si guida da sola e desideriamo la Topolino alla mostra d’epoca.

Da una parte sembra che non vogliamo abbandonare, come fanno i bambini quando si attaccano alla futura sciatica della mamma. Dall’altra, rincorriamo il futuro come una grandissima bolla di sapone pronta a scoppiare da un momento all’altro. A volte ho la sensazione che questo tenere un piede in due scarpe ci faccia camminare parecchio scomodi durante questa nostra vita.

Non sappiamo parlare del presente senza richiamare la nostra storia o senza voler anticipare il nostro futuro.

Ad esempio, se noi pubblicitari dicessimo unicamente che “Aldo sa fare scarpe pazzesche”, probabilmente sarebbero pochi ad acquistare le scarpe di Aldo.

Perché ad Aldo il calzolaio, per vendere, non basta asserire che fa le scarpe bene perché è capace di fare il suo mestiere. Perché noi vogliamo sapere tutto di Aldo e Aldo vuole dirci tutto di lui. Perché noi vogliamo la certezza che lui abbia l’esperienza per realizzare delle scarpe pazzesche e lui vuole dimostrarci di avere quell’esperienza raccontandoci che anche suo padre e il padre di suo padre e il padre del padre di suo padre facevano scarpe. Che la sua è un’attività since 1820, che sono due secoli che la gente passeggia con le sue scarpe e che ha in mente due ideine che cambieranno il futuro delle calzature.

Perché quello che siamo in questo esatto momento sembra non bastare mai per rappresentarci?

Attenzione: è naturale che ognuno di noi – azienda o privato che sia – sappia da dove viene e sappia dove vuole andare. È naturale che per molti la volontà sia quella di rinnovarsi stando ben attenti a non abbandonare le proprie radici e a non dimenticare chi si era prima. Sono certa che ognuno di noi abbia avuto un passato, abbia un presente e si auguri un futuro e sono certa che abbia un enorme valore descriverli tutti quanti.

Ma non mi sembra affatto che nessuno di noi si limiti a descriverli. Mi sembra piuttosto la ricerca di una forzatura del tempo nel tentativo di far convivere nel presente anche il passato e il futuro. Ma possono davvero convivere questi principi? E, soprattutto, perché mai dovrebbero? Qual è il valore aggiunto nel provarci?

Lo facciamo, ad esempio, quando tentiamo di raccontarci con formule come tradizione innovazione o quando parliamo di prodotti industriali ma artigianali.

Siamo troppo antichi se ci riteniamo solo tradizionali?
Siamo troppo presuntuosi se ci dichiariamo innovatori?
La via di mezzo vale come identità?

Sono dinamiche che in agenzia non possono essere affrontate senza spirito critico. Non è facile raccontare al consumatore che il marchio storico che l’ha accompagnato durante tutta la vita ha “deciso di rinnovarsi”. E per il pubblico non è facile accettare quel cambiamento.

Ci sono un mare di prodotti che si sono evoluti nelle loro versioni 2.0, 3.0, 4.0 e che vendono di più nel loro modello d’origine. A volte per funzionalità, a volte per abitudine, a volte per affetto. Perlomeno fino a quando non ti costringono a cambiare rendendo le prime versioni obsolete e non funzionanti. Quando il cambiamento arriva, non è facile nemmeno per noi svecchiare un’immagine ammortizzata senza snaturarla, darle una rinfrescata, fare un restyling lasciando intatta la percezione che il pubblico ne ha.

Ed è un rischio. Pensate a Mastro Lindo conrasta. O se, da domani, la mucca della Milka fosse gialla. Certo, potreste preferire il nuovo look, vederla in TV ed esclamare “oh ma va come le dona il giallo maculato!”. Poi però potreste anche attraversare la corsia di un supermercato, non riconoscere più il packaging e bypassarla con nonchalance. D’altronde anche a noi donne e uomini basta un’innocua tinta ai capelli o una sbarbata per sentirci dire: “Ma guarda, non ti avevo nemmeno riconosciuto così!”.

Pali, Paleolitico e un pazzo che il settimo giorno creò la parola “rivisitazione”

E grazie al pazzo. Il verbo rivisitare sta vivendo una giovinezza mai vissuta fino ad ora. Da quando quel pazzo – probabilmente con manie di auto giustificazione – ha pescato con un amo del 4 sul fondo della lingua italiana questa parola che con arrogante semplicità mischia innovazione e tradizione shakerandole e servendole con un’oliva, ne approfittiamo tutti. Anche gli chef. Lanciano piatti che definiscono “innovativi” rivisitando piatti tipici tradizionali e l’antica ricetta della loro povera nonna – che sono quasi certa sia il motivo per il quale le nonne sono sempre più restie a tramandare agli eredi i loro ingredienti segreti. Che poi se dicessi a mia nonna “agnolini” e “gourmet” nella stessa frase o anche solo nella stessa giornata, mi diserederebbe.

Penso anche che creatività non sia sinonimo di rivisitazione.
La creatività è inventare una marmitta.
La rivisitazione è modificare una marmitta.

Proprio l’altro giorno io e il mio collega e mentore esimio Diego – di cui vi invito a leggere questo articolo, ma anche questo e soprattutto questo – chiacchieravamo su quanto siano stati bravi a vendere la pole dance come sport e danza acrobatica distante dalla lap dance: vero che sarebbero erroneamente confuse essendo profondamente differenti, altrettanto vero che nell’immaginario collettivo un palo abbinato ad una danza è innegabilmente – oserei dire palesemente – un simbolo erotico.

Nota Benissimo: lo stesso si potrebbe dire di moltissimi altri sport. Ho fatto questo esempio perché mi sembrava più attuale di altri.

Secondo voi, la pole dance è una marmitta completamente nuova o una modificata?

Articolo Tavolobrain - blog copiaincolla

Salomè che danza davanti a Erode. Gustave Moreau, 1876

Tornando al tema rivisitazione, è risaputo che oggi le cose antiche e fatte come una volta stanno rivivendo una nuova giovinezza.

Prediligiamo oggetti creati oggi come si faceva ieri, preferibilmente con materiali poveri per dargli originalità e veridicità. Tanto che moltissimi prodotti di oggi sono nati grezzi, si sono evoluti nel tempo e poi sono tornati grezzi. #Artigianato

Oppure preferiamo oggetti creati ieri come si faceva l’altroieri, preferibilmente con sentore di antichità per conferirgli autenticità. Tanto che moltissimi prodotti di questo tipo sono nati fighi, si sono consumati nel tempo e per questo sono tornati fighi. #Vintage

Ciò che è certo è che entrambi #TiCostanoUnRene.

Non so a voi, ma tutto questo a me fa #EstremamenteRidere.

È imminente il lancio di Sony e Sega delle rispettive retro console classiche contenenti i giochi in versione vintage.

Un po’ come se Apple rilanciasse l’iPhone 3G e tutte le persone appena uscite dalla fila dell’XS si reimmettessero in quella dei più fedeli fondamentalisti dell’appleianesimo.

Ma se è vero che le mode tornano, sarà anche vero che non siamo i primi a comportarci così. Immaginate un nostro antenato primitivo con un cartello “Qui solo pellicce artigianali” oppure un Homo Sapiens amante del vintage.

Al mercatino dell’usato della pietra
– Oh Dino, ho scoperto il fuoco!!!
– Bravo Sauro! Ma sai che Pietro – quello che ha il banco nella caverna che fa angolo – mi ha appena venduto un fossile di pterodattilo? Non se ne vedevano dall’era mesozoica!
– Oh ma va! Sì ma col fuoco ci possiamo cuocere i mammuth, con quello cosa ci fai?
– Ma niente ci faccio, lo metto lì per bellezza
– Sai cosa ti dico? Hai proprio ragione, passami l’acqua che spengo il fuoco. Tu fai quello vintage, io faccio il crudista.

Si stava meglio quando si stava in qualsiasi altro periodo storico

Sì, perché oltre ad essere eternamente congelati tra il prima e il dopo, siamo così arroganti e presuntuosi che rimpiangiamo anche i tempi che non abbiamo nemmeno vissuto.

Ce ne usciamo con frasi come “invece che andare avanti torniamo sempre indietro” e la meravigliosa “si stava meglio quando si stava peggio”. Tralasciando che neanche una contorsionista è contorta come questa frase e come la mente di chi la pronuncia, sembra che nelle altre epoche la gente stesse proprio da Dio.

Qualche anno dopo l’Inquisizione.
“Aaah quando c’era il Torquemada, le streghe se ne tornavano sulla loro scopa”.

Nell’Antico Egitto.
“Ramses ha fatto tante cose buone, ad esempio ha bonificato il Nilo.”

Se siete tra coloro che si esprimono a frasi fatte, vi avviso: state diventando vecchi. Ma non uno di quei Richard Gere della situazione che come il Chianti più invecchia e più è bono o uno di quegli anziani arzilli che hanno la febbre del sabato sera da un sacco di sabati sera. No no no. State diventando uno di quei vecchi prepotenti, bavosi e rincoglioniti che vi osserva dalla panchina della piazza puntandovi col bastone e che commenta ragliando – perché lui pensa di sussurrare ma è un po’ sordino e quindi in realtà urla – “Ahh i giovani di oggi sono tutti drogati”.

A proposito di Chianti, a proposito di vintage.

 

Come ai vecchi tempi

Se invece siete ancora nel fior fiore dei vostri anni, sappiate che siete comunque avvolti da questa crisi di mezz’età. Vi circonda, anche se non vi appartiene.

Siamo vecchi fuori e vecchi dentro, e siamo fortunati se siamo solo la prima delle due cose. Ce la prendiamo con tutti rimpiangendo altri tempi passati da noi o da altri prima di noi. Sono 16 anni – SEDICI – che è in vigore l’euro e sono 16 anni che. ragioniamo. in. lire.

I vecchi tempi non tornano. Altrimenti non si chiamerebbero vecchi.
I nuovi tempi non possono essere come i vecchi. E quando ci provano, risultano logori e tristi, come chi li rimpiange. Arriveranno. Se non li vedete, siete morti.
Questi tempi visitateli, invece di rivisitarli. Al limite fatevi rivisitare. Da uno più bravo del primo.

Perché rivisitare vuol dire visitare nuovamente. E quando ri-visitiamo una città che abbiamo già visitato, lo facciamo per conoscerla meglio. Perché rivisitare dovrebbe servire a conoscere meglio una cosa, non a cambiarla.

“Rivisitare” per cambiare qualcosa che è già qualcosa – e spesso neanche tanto in meglio – non risolve un bel niente. Lo dimostra la nostra storia, che è una rivisitazione continua: di opere letterarie, teatrali, musicali. Ma soprattutto di azioni, di eventi, di errori. Degli stessi identici errori raggiunti in un modo diverso, “rivisitando” le cazzate di altri.