Da quando abbiamo aperto il blog di copiaincolla, Chiara O – d’ora in poi Etta, per non confonderla con Chiara Effe –  si prodiga affinché la cadenza di ogni articolo rimanga inalterata, assicurandosi che ognuno di noi prepari per tempo il proprio.

Io, stavolta, ho sgarrato.

Strano.

Così mi ritrovo alle ore 09.16 a scrivere un post di cui ancora non so l’argomento. Sì, in fin dei conti, scrivere è mio lavoro, ma ciò non significa che alle 11 Etta pubblicherà il mio best seller. Non mi riferisco al numero di battute del mio testo o a quanto possa essere interessante e apprezzabile il suo contenuto.

Parlo del fatto che quando scrivo, dopo una mezzora di incessante cichi cichi sulla tastiera, i pensieri che mi passano per la testa diventano soggetti, verbi, complementi. E me li ritrovo lì, nero su bianco, una cosa molto simile al Pensatoio di Silente.

Le parole sono, nella mia non modesta opinione, la nostra massima e inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo.

Albus Silente

Contenuti e associazioni di idee

Quando i pensieri sono solo nella mente, le associazioni si formano così in modo così veloce da farmi perdere il filo. Il classico “Scusa ma come siamo arrivati a parlare di questo?!”. Quando quei pensieri li devo scrivere, allora sì che arriva il bello. Perché per quanto le mie dita li trasformino in parole in breve tempo, il lavoro che si sussegue alla redazione della prima bozza di testo è potenzialmente infinito. E lo faccio finire solo quando mi sembra scritto nel miglior modo possibile. O quando sono le 11 e il tempo è esaurito, ma questa è un’altra storia.

Ecco perché so che il mio articolo-dell-ultimo-minuto non sarà mai come avrei voluto che fosse, perché in ogni testo che scrivo, lo stesso pensiero si trasforma costantemente. Non di significato, ma di forma. Perché quando scrivo un testo lo giro e lo rigiro, lo leggo e lo rileggo fino a quando sono certa di non aver potuto fare di meglio. Ed ecco che, se avessi il tempo materiale di leggere e rileggere questo articolo, modificherei di certo almeno la metà delle frasi che lo compongono.

Ehi, aspetta, alla fine sono solo le 9.33. Un po’ di tempo per un esercizio di stile ce l’ho.

Replay.

Sono le 09.16. Ho esattamente 1 ora, 44 minuti e una manciata di secondi per scrivere questo articolo. Di cosa parlerà lo devo ancora decidere ed è meglio che mi sbrighi, prima che la redattrice del blog di copiaincolla Chiara O – Etta per gli amici – indìca una riunione cazzia-blogger. La sento proprio ora che intima a un collega “Non si possono fare le cose fatte in bene in fretta!”. E ha ragione (avete notato la ripetizione nel primo articolo “così in modo così veloce”? 🙂 ).

La sua frase mi ricorda che il tempo stringe, così mi concentro e inizio a lavorare. Tic tac. Di cosa scrivo? Tic tac. Ieri ho guardato la prima puntata di X Factor. Tic Tac. Scrivo del sogno che ho fatto stanotte. Tic tac.

E se scrivessi un meta articolo? Un articolo che parla di quello stesso articolo. Sì, questa mi sembra una buona idea per un articolo sul rush finale. Per spiegare a voi lettori che tutto quello che oggi leggerete qui è una cagata pazzesca. Perché per trasformare il pensiero in parola scritta ci vuole poco, ma per trasformare la parola scritta in parola scritta bene ci vuole molto di più. E un paio d’ore – soprattutto per un copy – sono troppo poche.

Ad avercene di Pensatoi

Avete presente il Pensatoio di Silente? Ahh, maledetta Rowling. Mi hai fatto credere in troppe, davvero troppe, magnifiche irrealtà. Qualche volta vorrei anch’io poter mettere il mio tratto pen sulla tempia, appoggiarlo sul foglio e vedere magicamente i miei pensieri nero su bianco, così come li ho pensati ed immaginati, senza perdere nemmeno una delle associazioni di idee intrecciate nel mio cervello. Ma sono certa che se anche potessi farlo, passerei altre giornate assieme al mio tratto pen a riscrivere il mio “pensatoio di carta”.

Pensatoio Silente

Perché non mi accontento mai. Perché non mi piacciono i lavori mediocri. Perché è una sfida contro me stessa per vedere fino a che punto posso arrivare. Perché mi diverto. Perché posso perdere anche 20 partite di fila a Scala, ma finché non ne vinco una non smetto di giocare (storia vera, n.d.io). Perché non mi fermo fino a quando non sono certa di aver messo ordine al disordine nella mia testa. D’altronde il figlio del disordine l’hanno chiamato uomo, dicevano questi qui.

Play.

Sono le 10.12. Numero di bozze scritte: due. Se potessi, giocherei questa partita altre 19 volte, fino a scartare l’ultima carta con tanta soddisfazione e un pizzico di egoismo.