Sono mesi che leggo articoli a tema Covid-19.

E che pubblico contenuti a tema Covid-19.

Ho pensato a lungo a come alleggerire l’atmosfera nel consueto appuntamento del venerdì con Tavolobrain.

Che alla fine i vostri clic sul post sono clic sulla fiducia.
E mi spiacerebbe approfittarmi del vostro tempo.
Davvero, grazie della fiducia.

Tavolobrain nasce come un luogo libero, in cui condividere idee, spunti, riflessioni. Volevo fare una digressione per dargli un po’ di respiro, per coccolarlo un po’, il nostro cucciolo di blog, contagiato dal virus o dai suoi effetti come tutti noi. Privato della sua libertà.

Mi sono ripromessa che quando sarebbe toccato a me avrei parlato di tutto tranne che di coronavirus.

Ho buttato giù una recensione di un libro di Dostoevskij (che ho letto in quarantena).

Poi un elogio ad un episodio di Masha e Orso (che ho guardato sempre in quarantena).

Mi sono un attimo fissata con la Russia (in quarantena).

Mi ero ripromessa di parlare di tutt’altro. Anche del mio sedere basso, se fosse stato utile a cambiare argomento.

Vorrei parlare d’altro. Ma non ci riesco. Forse non si può.

Un po’ perché tutto quel che penso mi riconduce a un “momento covid”.
Un po’ perché pensandoci ho capito che Tavolobrain oggi non può più essere un blog. Tavolobrain oggi deve essere un archivio.

È di fondamentale importanza documentare tutto questo.
Molti di noi lo stanno già facendo, più o meno consapevolmente.
Con un diario, con la fotografia postata di una bella famiglia – viva – a casa, al sicuro.

Può sembrare futile, può sembrare stupido.

Io non credo sia stupido.

Durante altre pandemie sono stati dipinti i quadri che oggi sono nei musei.
Dalle peggiori guerre sono nati i migliori sonetti.
Meravigliose, strazianti, drammatiche poesie che non sarebbero mai potute essere scritte in un’altra epoca o in un altro momento.

Gerda Taro fotografata da Robert Capa

Pensieri.

Pensieri scritti non solo da chi la guerra l’ha vissuta in prima linea.

Dalle mogli a casa alla ricerca di notizie del proprio amato.
Dalle madri orgogliose dei loro figli al fronte e quasi certe che non li avrebbero mai più rivisti.

Pensieri divenuti i più profondi scambi epistolari del Novecento.

Dai massacri, dalle ingiustizie, dalle discriminazioni, sono nate le azioni più rivoluzionarie che l’uomo abbia mai visto.

La colonna Vendôme distrutta fotografata da Franck nel 1871.  A seguito della schiacciante vittoria tedesca nella guerra franco-prussiana, nel 1871 il popolo parigino si sollevò e – promuovendo maggiore equità sociale – istituì la Comune di Parigi.

Combattere la morte con la vita.

Trasformare il tempo in storia. E in storie.

È una delle cose che vorrei fare.

Non importa se non sono Ungaretti.
Neanche Ungaretti era Ungaretti durante la Grande Guerra.
E Manzoni non sarebbe stato Manzoni se nessuno prima di lui avesse impresso nero su bianco documenti d’archivio e cronache dell’epoca.

E io non voglio diventare né Ungaretti né Manzoni. Voglio raccontare.
Perché è fondamentale farlo. Anche se può non sembrarlo oggi.

Post, diari, canzoni, quadri. Opere. Documenti.

Sono tutti documenti. E sono i nostri.

Fatti di carta e di parole. Di suoni, di colori, di materiali.
Il tessuto studiato appositamente per creare la mascherina è un documento.
E se non lo è oggi, lo sarà domani.

Il tizio col Volvo che ha ricominciato a sorpassarmi tutte le mattine per strada dopo il lockdown è un documento.

Noi stessi siamo documenti viventi.

Dobbiamo raccontarci perché diventi eterno quello che abbiamo visto, quello che abbiamo pensato, quanto ci siamo cagati addosso.

Quanto lo stiamo ancora facendo.

A febbraio ridevamo. Poi piangevamo.

Magari a settembre saremo tutti lì ad appendere la mascherina al chiodo. Magari prima. O magari no.
Forse in chat ci staremo scrivendo “Esci?” e non “Ma tu davvero esci?”

Dietro ogni filo c’è una storia: dalle tracce preistoriche di fibre colorate rinvenute in una grotta del Caucaso alle bende di lino che avvolgevano il corpo di Tutankhamon; dalle vele di lana con cui i Vichinghi anticiparono Colombo sulla rotta per le Americhe al dedalo di leggendarie Vie della Seta su cui sciamavano le delicate stoffe cinesi e i preziosissimi bachi trafugati e poi diffusi in Occidente; dai calicò e chintz indiani traghettati sulle navi di Sua Maestà britannica, pronti a dare avvio alla Rivoluzione industriale, alle piantagioni di cotone americane nutrite di schiavi che furono la scintilla della Guerra civile; dalle tute spaziali cucite a mano per raggiungere la Luna ai tessuti tecnologici in grado di spingere l’essere umano oltre i suoi limiti fisici, per farci conquistare di volta in volta l’Everest o il Polo Nord, un nuovo record olimpico o nientemeno che il futuro.

Si parla sempre del ruolo dell’artista nella società.
Di quali cantanti abbiano scritto musica non leggera.
Di quali conduttori si siano esposti prendendo posizione.
Saggisti, portavoce del popolo. Ciarlatani, anche.
E noi? Che non siamo cantanti, che non siamo conduttori.
Che siamo ragazze e ragazzi.
Uomini e donne.
Stronzi e stronze.
Materialisti e materialiste.
Viziati e viziate.
Noi che ruolo abbiamo ora?
Non voglio invecchiare senza scrivere del mio giardino.
Anche se non gliene frega niente a nessuno del mio giardino.

Senza scrivere del mio divano, che prima era la mia Spal e poi è diventato il mio Barcellona.

Del furgoncino della lavanderia ambulante promosso a sveglia del sabato mattina.

Della casa mai costruita vicino ai campi.

Una volta ci ero entrata da piccola, con la mia gang dell’argine.
Avevamo giocato coi sacchi di sabbia, avevamo sfidato i ponteggi.

I fili elettrici. Le nonne, le mamme, le scarpe bianche.

Non ricordavo più quel posto.

Ci sono tornata perché era l’unico posto in cui si poteva correre.
Io ho camminato. Non sono una da corsa.
Sono più una da nasce, cresce, cammina veloce.
E via di sensi di colpa.
In quarantena i sensi di colpa si sono allargati come i polmoni della nonna della mia amica quando ci ha beccato sul cantiere.

La nonna della mia amica è morta, di coronavirus.

Ho visto anche la vita.

Tre meravigliosi gattini dagli occhi blu.

Ho guardato due rondini fare un nido.

E cagare sul vetro della mia auto.

La mia amica mi ha fatto pensare a un’altra amica.

Le ho scritto, non ha risposto.
Ha fatto bene, nessuno ti chiede da anni come stai.
Ora tutti a chiederti come stai.
Ho pensato al mio ex. Volevo chiamarlo, poi ho messo giù.

Per lo stesso motivo.

Ho scoperto che mi piacciono le melanzane.

Non le avevo mai mangiate perché a me la parola melanzane non piace.

Ho respirato diversamente l’aria di una sera di giugno dopo 8 ore di mascherina.

È già giugno. Giugno non è mai stato così giugno.
Anche gli altri giugni si respirava un’aria diversa.
La fine delle scuole, le ferie, le vacanze.
L’acqua del mare che fa bene alle ossa.

Il cambio d’aria.

Per alcuni è un’aria diversa. Per altri non è più nemmeno aria.

È la prima volta per tutti. E per alcuni è anche l’ultima.

Qualcosa ho già scritto.

Sulle nostre cose di prima necessità.

Ho scritto sulle cose inutili che poi ci sono sembrate utili e sulle cose utili che poi ci sono sembrate inutili.

Quando ci sottraggono delle cose è essenziale che anche noi togliamo tempo alle cose inutili e ci impegniamo a riprenderci quelle utili.

Voglio scrivere ancora. Di come questo sia un virus che ci toglie le cose.

Che poi il tempo ci toglie cose di continuo.
Tipo le tette sode e il sedere alto.