Il buon cibo non è un punto d’arrivo ma un punto di partenza
Ne parliamo con Calavera
Calavera è un brand che è anche un’insegna. Il suo marchio rappresenta un player del risto-retail con locali ispirati alle atmosfere messicane, presente in un numero sempre maggiore di zone d’Italia.
A far nascere Calavera è stato il Gruppo Cremonini, noto anche per Roadhouse Restaurant. Fin da subito, alla base c’è stata un’idea precisa – la stessa sviluppata dalla comunicazione che copiaincolla ha costruito e sviluppato attorno al brand:

I ristoranti Calavera si pongono verso il pubblico come qualcosa di diverso da semplici ristoranti.
Certo, ci si va a mangiare. Ma ci si va anche a fare un breve spuntino o aperitivo. E ci si va anche solo per acquistare merchandising a tema teschi – le celebri calaveras messicane, appunto – o più generalmente a tema America latina.
L’obiettivo dell’insegna è che dentro agli spazi dei ristoranti Calavera, immersi tra colori, musica, sapori, odori che trasudano di Mexico e più in generale di tutta l’iconicità più legata all’anima latineggiante che attraversa terre sudamericane e poi attraversa l’oceano e prosegue la sua corsa viva fino alla penisola iberica, si vada a passare del buon tempo.
Vista la peculiarità di Calavera dentro a un contesto in forte espansione come il risto-retail, abbiamo voluto chiacchierare per il nostro Tavolobrain con Eleonora Tebaldi, Head of Brand di Calavera Restaurant & Billy Tacos per raccogliere qualche spunto interessante.
Perché l’idea di creare ristoranti che vanno oltre il cibo? Non c’è il rischio di togliere importanza alla cucina?
Abbiamo inteso fin da subito Calavera come un format, come un contenitore da arricchire di contenuti coerenti e significativi per un certo pubblico e un certo raggio di significati, di sensazioni, di esperienze. E tutto questo nasce dall’idea che il Gruppo Cremonini ha sempre portato avanti e cioè che il pasto è un momento che non deve essere limitato al nutrimento, ma nemmeno limitato al buon cibo: certo, la qualità deve essere il fondamento su cui erigere tutta quanta la nostra architettura, ma le direzioni poi da prendere sono quelle di interpretare il pasto come un’occasione sociale e culturale.

Attraverso la tavola si può scoprire l’anima di un luogo perché il cibo è una formidabile porta d’ingresso. Dev’essere poi tutto quello che c’è intorno a rendere quel cibo indimenticabile. Noi con Calavera volevamo creare uno spazio che mescolasse e tenesse assieme molti piaceri: la cucina, la musica, i colori. Il risultato è un’atmosfera ispirata al Messico contemporaneo che ha come obiettivo non solo offrire cibo, ma costruire un ricordo positivo del momento trascorso lì.

Pensate sia questa la strada che sta imboccando il risto-retail?
Ne siamo convinti e non è in realtà una tendenza nuova, solo che ora è sempre più diffusa e visibile. Quando il pubblico oggi si rivolge a format e brand ben riconoscibili e diffusi, non è più appagato dalla sola dimensione gastronomica. Quello è un aspetto che continua invece a cercare nei ristoranti più tradizionali dove la cucina è ancora l’essence dell’esperienza.

Nel risto-retail il pubblico chiede un marchio in cui potersi riconoscere, chiede un marchio che lo possa posizionare come quel genere di persone che vuole essere, chiede un marchio che rappresenti lo stile di vita che in quel momento vuole interpretare. La tavola si mescola così a un’esperienza più trasversale e ramificata che va a intercettare la sfera dell’intrattenimento. Per essere memorabili e significativi sul mercato serve costruire attorno al consumo del piatto un ecosistema coerente, riconoscibile e molto sfaccettato verso una grande varietà di stimoli.
Come possono convivere la spinta più commerciale alla formulazione di promo con la spinta a costruire un’identità d’esperienza pulita e iconica?
La questione è davvero centrale. Per riuscire a farle convivere con armonia serve il giusto equilibrio. Le promo hanno il fine imprescindibile di portare traffico e ingressi, ma senza dubbio vanno disegnate nel pieno rispetto del tono di voce, dell’anima, dell’identità della marca altrimenti porterebbero traffico e accessi non consapevoli e non coerenti con l’esperienza offerta da Calavera, elemento che farebbe crollare il funnel sul più bello, vanificando investimenti e creando confusione attorno al brand che faticherebbe ad affermare la sua personalità. Ogni promo deve diventare una leva naturale dello spirito che si respira nei locali Calavera senza mai rischiare di essere unicamente rivolta al fine commerciale dimenticando personalità e identità della marca.
Come pensate sia giusto intercettare il vostro pubblico e seguirne i cambiamenti?

C’è un solo modo per riuscirci e si chiama ascolto. Serve intercettare con grande attenzione di cosa parlano, cosa desiderano da noi, che abitudini prediligono e che abitudini adottano tutti coloro che già scelgono di passare del tempo da Calavera. Una volta bastava conoscere il target e potevi avere la tranquillità, con buona approssimazione, che quella conoscenza sarebbe bastata a costruire il rapporto del tuo brand con lui.
Oggi i tempi con cui i molti pubblici cambiano le loro spinte verso le esperienze che vogliono vivere sono molto più stretti e volatili: l’ascolto dev’essere continuo, così che si possa anche tentare di anticipare i prossimi trend. Le community non sono identità statiche, ma evolvono insieme a trend culturali, generazioni e contesti sociali. Noi vogliamo crescere di pari passo insieme al nostro pubblico, non inseguirlo.
Come si fa a sviluppare un brand di risto-retail allargando lo sguardo anche verso direzioni apparentemente lontane come il merchandising non-food?
Per Calavera il buon cibo è un punto di partenza e non un punto di arrivo. Non vogliamo che la qualità della materia prima, la cura dell’impiattamento e la bontà dei sapori sia la sola ragione per entrare nei nostri ristoranti. Vogliamo che sia a tutti chiaro che oltre al buon cibo possiamo offrire un luogo che accoglie, diverte, sorprende. Vogliamo essere – e abbiamo la presunzione di dire che sappiamo essere – un’esperienza. Questo significa alzare costantemente l’asticella e trasformare il momento del pasto in un momento memorabile invece che in un atto prevedibile e ripetitivo. Il nostro obiettivo è portare il cliente a uscire dai nostri locali avendo la chiara percezione di aver vissuto qualcosa di wow.

Tutto questo ci porta poi, allargando il perimetro del brand, a far perdurare quell’esperienza anche al di là dei nostri locali, al di fuori, una volta tornati a casa. Se hai amato un’esperienza sei più portato a volerne portare a casa un pezzo: ed ecco il merchandising. Il merchandising per noi non è un “extra” ma invece un’altra estensione naturale. Una t-shirt, un bicchiere, un gadget diventano simboli di appartenenza e mezzi per allungare la vita dell’esperienza oltre le mura del ristorante. Sono le dinamiche che portano un brand a diventare cultura pop.

Come il digital può contribuire all’esperienza reale nei vostri ristoranti?

Il digitale è un ponte preziosissimo. Ovvio, non sostituisce l’esperienza reale e non si deve commettere l’errore di penarlo. Ma se lo si considera un amplificatore di valori e messaggi identitari allora digitale e reale diventano due facce della stessa medaglia. Social, app, interazioni digitali sono teaser perfetti per costruire con grande impatto un senso di attesa, così come sono mezzi ideali per connettere il pubblico e creare il giusto ingaggio. Un patrimonio che poi va concretizzato nel modo migliore non appena il momento diventa fisico, non appena tutto si vive in-store.
Nell’ultimo periodo avete attivato partnership con altri marchi. Quali sono le potenzialità e quali i rischi di scelte di quel tipo?
Le collaborazioni che abbiamo portato e portiamo avanti con altri brand sono un’importante asset valoriale: se esistono affinità – culturale, di sensibilità, di significati – tra tutto ciò che il pubblico proietta sui marchi partner allora il matrimonio può portare a frutti davvero interessanti in termini narrativi e di posizionamento. I rispettivi pubblici di partenza trovano un luogo adatto a loro dentro al perimetro delle marche di arrivo, portando valore a entrambe e risultando per entrambe un allargamento dei suoi orizzonti. Il rischio, va da se, è tentare di forzare partnership quando quell’affinità invece dovesse mancare, rischiando non solo di essere inefficace per l’apertura verso un nuovo pubblico di arrivo ma anche di disorientare il pubblico di partenza creando così disorientamento e distanza tra lui e il brand.
Grazie a Eleonora Tebaldi per questo viaggio inedito nel mondo della ristorazione, la cui varietà sta sempre più diventando una risorsa da scoprire e a cui ispirarsi!
