Enterogermina
Hanno pianto un poco, poi si sono abituati.A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo!
(Fëdor Dostoevskij)
Convivere. Con il compagno che russa, con la collega che fischia.
Con i dubbi, con le incertezze, con la nebbia.
Si può convivere in pochi e si può convivere in tanti.
Si può convivere con le persone, con le cose, con le situazioni.
Alcuni tipi di convivenza sono cambiamento, eccitazione, canzone cantata in auto a squarciagola.
Sanno di torta.
Altri sanno di pop corn bruciati.
Altri ancora sanno di entrambi i sapori.
Le bamboline all’interno della prima matrioska russa costituivano i componenti di una famiglia, dalla mamma al neonato in fasce. Credo che oltre al concetto di famiglia anche quello di convivenza sia un concetto piuttosto scomponibile. Al posto di bamboline con pomelli molto rossi ritroveremmo tutti quei sapori dolci e amari che dicevo poco fa. Troveremmo anche una serie di verbi transitivi e riflessivi come accontentare, accontentarsi, lottare, ritirarsi, amare, amarsi e un solo sostantivo: compromesso.
A me la parola compromesso fa troppo ridere. Ma ridere tipo che ti scappa la pipì da quanto stai ridendo. Mi fa ridere perché noi esseri umani sappiamo essere incredibilmente egoisti su delle stronzate – anche in tempi di pandemia globale – e poi riusciamo ad affidare addirittura la nostra felicità personale a qualcun altro.
Siamo uno spettacolo.
Ci sta sul cazzo se qualcuno sceglie un programma TV al posto nostro, poi lasciamo che qualcun altro decida per noi le cose che cambieranno il resto della nostra vita. Quando siamo piccoli è un processo quasi obbligato, certo. I nostri nonni decidono dove saranno le nostre origini, i nostri genitori l’istruzione che avremo; un lavoro può influenzare dove abiteremo, un figlio può cambiare totalmente le nostre abitudini.
In ogni caso, a volte è un approccio discutibile. Basti pensare a tutti i poeti, pittori e scultori che se fosse stato per le loro madri sarebbero stati avvocati come i loro padri. #formazionegiuridica
Le coppie meritano un paragrafo a parte se pensiamo all’eterna discussione su chi tra i due ha ragione. Care coppie, quando litigate, pensate ai poveri fermenti lattici che riescono a convivere senza problemi con altri 12 miliardi di stronzi rinchiusi in un flaconcino di 4 centimetri. Che poi i litigi quasi mai terminano grazie ad un’argomentazione vincente e quasi sempre finiscono per lo stremo di chi si rompe le palle per primo.
Forse è che alla fine se uno è felice, aver ragione, essere dalla parte del giusto, non gli interessa più di tanto. Non gli interessa se i mobili della casa saranno tutti bianchi, se la sera guarderà l’Inter o Grey’s Anatomy. Non gli importerà da che parte del letto dovrà dormire. Da chi si cenerà a Natale. O dei turni dell’immondizia.
Anche la convivenza dovrebbe avere i turni.
Convivere è portare fuori il bidone dell’umido, della plastica e dei rimpianti.
Chi getta via troppo riporta in casa un grande sforzo umano.
Ci vuole pochissimo per mandare a puttane situazioni di vetro come queste.
Ci vuole tantissimo per capire che a volte puoi convivere con una persona, con una cosa o con una situazione solo rimanendo alla larga da quella persona, da quella cosa, da quella situazione.
Si impara a convivere con il mondo da 0 anni in su ma la verità è che si può anche non imparare mai davvero a farlo.
Perché convivere è una cosa che stufa, se non ci si riesce.
E uno si stufa quando non riesce a fare le cose.
E ad alcune cose serve una vita intera per riuscire.
Che strano, costruire un pezzo per volta e dover aspettare una vita per vedere il proprio sogno realizzato.
Dare tutto anche quando non hai niente, dare tutto senza volere niente in cambio. Restare poveri spendendo tutto quanto per arricchire quel sogno. Rischiare di non arrivarci neanche. Non mi piace, infatti, chiamarlo sogno. Perché un buon inizio non è una garanzia di una buona fine. Puoi metterci tutta una vita anche per costruire un disastro.
Ma è solo alla fine che te ne accorgi, quando realizzi che tutti quei pezzi messi insieme sembrano appartenere a due sogni diversi.
E anche se hai diritto di stufarti di quella convivenza, non hai ancora il diritto di stufarti delle altre.
Perché per il resto della tua vita dovrai convivere con altre mille cose ancora. Magari che non hai scelto tu. E che non ti piacciono affatto. Potrebbe addirittura capitarti di dover convivere con una pandemia globale.
Quando il tuo convivente è un virus, convivi anche con molte altre cose. Con il fiato che ritorna a mo’ di risacca nella mascherina e ti scalda gli occhi. Con un appartamento di 40 metri quadri. Con l’andare fuori di testa dentro in casa. Con la paura costante di essere contagiato o di contagiare. Di perdere i tuoi cari. Di perdere il tuo lavoro. Di perdere la tua vita, che è la tua convivenza più lunga, quella con te stesso, l’unica che non può tradirti con un altro e andarsene di casa.
Quando il tuo convivente è un virus, convivi anche con la solitudine.
La solitudine mi porta a pensare a una moltitudine di cose a cui non avevo mai dato valore. Sono una di quelle persone che per ridare vita a giornate morte si è dedicata a tentativi disperati di torte disperate. E a me le torte non piacciono.
Alla fine se un uomo convive con un virus, risponde sopravvivendo.
Mi mancano i rumori di amanti, di ubriachi e di amanti ubriachi.
I continui suoni notturni della strada.
Sono una riproduzione casuale di canzoni di altre vite. Di altre moltitudini, di altre solitudini.
Questo silenzio fuori lascia troppo spazio ai pensieri dentro.
È diventato un sesto senso che abbiamo sviluppato in quarantena.
Tutto questo non ha senso.
L’una di notte. Il mal di schiena assicurato del risveglio non è sufficiente per farmi desistere alla notte sul divano. Il divano è la culla che il letto non riesce ad essere con la sua comodità memory. Perché il divano è memore, di un sacco di momenti. I momenti più belli della prima quarantena li ho passati sul mio divano. Poi in soggiorno c’è meno buio che in camera da letto. Non ho paura del buio, ho paura del silenzio.
La luce rompe il silenzio. Punta i riflettori su di me, passa il microfono ai miei pensieri.
In riproduzione casuale, anche loro.
Stanotte nevicherà? Chissà come sta la Pinny. Nella neve si dice sempre impantanato o intrappolato? Ma impantanarsi è italiano?
Cosa metto domani?
Non preparo mai i vestiti la sera per risparmiare un paio di minuti la mattina.
Come non preparavo lo zaino per la scuola come mia madre voleva che facessi.
Vedrai che ti dimentichi qualcosa, a fare le cose di fretta.
Dimenticavo sempre qualcosa.
Qualche volta ho pensato che fosse proprio lei a togliere le cose. Per darmi una lezione, essendo una maestra.
Non è questione di comodità, è questione di tristezza.
Per me è triste preparare questo tipo di cose in anticipo.
Poi lo pago, questo principio di vita. Una volta sono addirittura andata a lavoro senza gonna, con solo il maglione e i collant. Eppure nonostante la figura di merda colossale continuo a non preparare le cose e a dimenticare pezzi.
Sono in riproduzione casuale, come i rumori della strada.
Lo sono i miei sogni, i miei pensieri, le mie idee.
Lo è anche il mondo, in questo momento.
Non è facile ordinare il caos.
Di professione sono copywriter, che vuol dire che devo essere creativa almeno dalle 9 alle 18. Il mio spirito creativo invece funziona da dio dalle 5 alle 7 del mattino. Capita un sacco di volte che arrivi la sera senza avere idee convincenti su un progetto e poi torni in ufficio la mattina dopo con l’illuminazione segnata alle 6 del mattino sulle note del telefono o alle 6 di sera sul tovagliolo del bar.
Anche gran parte di questo articolo è stato scritto dalle 5 alle 7 del mattino. Tra un sogno e l’altro.
Di solito i miei sogni funzionano malissimo a qualsiasi ora. Mi accorgo quasi subito che sto sognando e me la prendo con la mia mente che non sa ingannarmi neanche la notte. Esattamente come me la prendo con i produttori dei polizieschi di seconda mano che inquadrano l’omicida e mi fanno capire dopo tre minuti quello che riveleranno un’ora di noia mortale dopo.
Adesso invece ho dei bug pazzeschi, da sveglia e da dormiente.
Ci metto qualche secondo prima di non trovar strano che in un film del ’97 le persone escono, si stringono la mano e non indossano alcuna mascherina. Ho sviluppato un nuovo tipo di sogni apocalittici. Questa nuova stagione è molto più imprevedibile degli episodi precedenti. Nei miei sogni ora tutti indossano la mascherina. Tutti sanno di essere al centro di una pandemia. Spesso sogno di essere positiva.
Il mio cervello sembra collegarsi con un adattatore.
Ecco cosa mi sta accadendo, mi sto adattando.
Adattarsi è un altro verbo che potremmo aggiungere alla matrioska della convivenza e a quella della sopravvivenza.
Se devo essere sincera alla selezione naturale continuo a preferire la riproduzione casuale, ma stavolta mi sento obbligata a prepararmi in un qualche modo.
Non mi adatto ancora granché bene alle persone, ma posso cominciare adattandomi all’ambiente, come hanno fatto le giraffe allungando il loro collo per arrivare alle foglie degli alberi.
Chissà che la mutazione genetica della figlia della figlia della mia futura figlia saranno le orecchie a sventola causate dagli elastici troppo stretti di questa generazione.
L’uomo si adatta a tutto, all’odore di concime nei campi, allo smog del centro città, anche a una convivenza forzata con un virus, con il silenzio, con il caos. Proprio come fanno i fermenti lattici.
Attenzione: la convivenza non va intesa quale sostituta di una dieta variata ed equilibrata e di uno stile di vita sano.