Meno comunicazione di prodotto, più relazione col pubblico
La pubblicità è attorno a noi, continuamente.
È la voce allegra di uno spot radio che ci accompagna nel traffico mentre andiamo al lavoro.
È il cartellone sei metri per tre che ci strizza l’occhio sulla provinciale, è il banner che appare mentre controlliamo il meteo per il weekend.
È il volantino che troviamo incastrato sotto il tergicristalli.
È il marchio stampato sulla maglietta della ragazza in metro.
È il post di prodotto sponsorizzato che compare sulla nostra bacheca al primo scroll che facciamo la mattina e all’ultimo prima di dormire.
Siamo talmente sovraesposti all’advertising, talmente abituati alla sua rassicurante presenza, che molto spesso passa inosservato, disattendendo la sua funzione.
Un bel problema, per noi pubblicitari!
Se consideriamo poi che il mercato è naturalmente saturo di prodotti ed opportunità pronte per essere colte da un pubblico sempre meno “fedele”, la situazione si complica.
È ancora possibile rendere un marchio memorabile?
Ce lo chiediamo continuamente. In un’epoca di meteore e one-hit-wonder sembra sempre più difficile elaborare una strategia di comunicazione che susciti nel pubblico interesse per il marchio e finisca per renderlo memorabile.
Si parla di meccanismi di in-bound: non basta più sollecitare continuamente il pubblico con stimoli di ogni genere, spingendolo ad un’azione – sia essa l’acquisto di un prodotto o di un servizio, una scelta, un’adesione (out-bound).
Una volta visibili nel mare magnum di messaggi pubblicitari, occorre piuttosto solleticare la curiosità del pubblico (pubblico, non più solo target). Che da passivo e distratto si riscoprirà un ricercatore attivo di informazioni sul nostro brand.
Si parla (e si straparla) anche di storytelling – o la più nostrana produzione di contenuti: il marchio smette di “spingere” ciò che ha da proporre ed inizia a raccontare qualcosa di più di sé.
Ma non si limita a parlarci di sé e del suo mondo: ci intrattiene, ci interroga e ci fa riflettere, discute di attualità, molte volte si schiera e prende posizioni.
Addirittura ci emoziona, ci fa sognare!
Tanto che iniziamo a vedere il brand come un interlocutore: ha una storia, un’opinione, dei valori, un “tono di voce”.
È chiaro che se non condividiamo la value proposition di un marchio, un tempo relegata allo slogan ed ora invece amplificata in ogni suo contenuto, difficilmente sceglieremo di acquistare quel determinato prodotto o servizio.
Se, invece, i messaggi che cogliamo ci danno riscontro della nostra visione delle cose, se ci sentiamo rappresentati e perfino compresi da un brand, a quel punto ne diventeremo sostenitori – oltre che clienti.
La chiave della memorabilità, quindi? La relazione.
I marchi sembrano aver capito che in un mondo di rapporti commerciali consumati fugacemente, la costruzione di un dialogo su tematiche altre rispetto al prodotto può portare ad una serie di vantaggi: una relazione più duratura, una “conversione a più lungo termine”, addirittura un’advocacy.
Almeno fino a quando qualche scivolone social non metterà in dubbio la sincerità di quelle prese di posizione. O fino a quando un altro brand riuscirà a farsi interprete migliore di un particolare tema.