Advertising quotidiano
«Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario, lei mi crede pianista in un bordello!» è una frase (nonché il titolo di un libro di Jacques Séguéla, uno dei più grandi pubblicitari di sempre, leggetelo) che mi ha sempre fatto ridere, perché è vera: fotografa perfettamente il pregiudizio – fondato – di cui il mondo della pubblicità è sempre stato oggetto.
Poco importa che ci sia un manifesto deontologico firmato dall’Art Directors Club Italiano, che sia stato fondato un Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria con relativo codice, e che addirittura ci sia una authority in Italia che ha il potere di far ritirare le campagne non conformi: l’advertising è da sempre guardato con sospetto, uno strumento nato per sedurre, qualcosa di lontano ed alterato rispetto alla realtà.
Da cosa nasce questo pregiudizio, radicato nell’immaginazione di tante persone anche anagraficamente più giovani?
Se la verità è che da sempre in pubblicità ci si è occupati di raccontare bene la verità piuttosto che celarla (“Truth Well Told” è lo storico motto di un altrettanto storico gigante del settore), è innegabile però che negli anni i linguaggi della comunicazione pubblicitaria siano cambiati.
Per anni la pubblicità ci ha raccontato di mondi che non appartenevano al consumatore medio. Senza perderci nei meandri del tempo, basti pensare agli anni 90, quando molti di noi muovevano i primi passi davanti al televisore o vi facevano merenda dopo la scuola: erano gli anni delle supermodelle negli spot, dello chaffeur Ambrogio che offriva i cioccolatini alla sua “Signora”, del latin lover impegnato ad insaponarsi sotto la doccia per rispondere alle chiamate (ed anche ad un fax!) delle sue spasimanti, gli anni dell’ “uomo che non deve chiedere mai”, anni di mamme con la piega impeccabile sempre pronte a sfornare dolci a qualsiasi ora del giorno e della notte. Gli anni di un iconico spot girato a Portofino, con una splendida Charlize Theron che si annoia in compagnia di un anziano miliardario per poi essere conquistata da un bicchiere di Martini on the rocks offerto da un ombroso Max Parrish, che lei decide di seguire incurante della gonna incastrata nella sedia.
Protagonisti belli e impossibili che si muovono tra scenari da fiaba, impegnati in attività sconosciute al telespettatore medio, ma soprattutto completamente avulsi dalla realtà del quotidiano – fatta di politica, costume, cronaca. Sospesi in uno spazio tempo indefinito, imperturbato.
Trent’anni sono tanti e tanto è cambiata la comunicazione pubblicitaria.
Oggi la quotidianità è oggetto imprescindibile delle attenzioni dell’advertising, tanto da diventare l’advertising stesso oggetto della quotidianità: le campagne pubblicitarie parlano la lingua contemporanea e trattano – addirittura anticipandoli – i temi del quotidiano, diventando a loro volta protagoniste della cronaca, che spesso ne commenta le performance e le reazioni suscitate.
Ultimo in ordine di tempo, il caso Gucci: se è vero che nelle ultime settimane è il volto della modella armena Armine Harutyunyan a riempire le cronache, la maison di moda, sotto la direzione creativa dello stilista Alessandro Michele, ha da tempo deciso di rompere gli schemi più classici del mondo fashion.
Lo ha fatto scegliendo di mettere al centro della propria comunicazione l’elogio dell’unicità e la lotta agli stereotipi di ogni tipo (estetici, di genere, di appartenenza etnica). Ma lo ha fatto anche decidendo di portare da 5 a 2 gli appuntamenti annuali di presentazione delle nuove collezioni, senza nascondere la speranza di diventare apripista per le altre firme – ed inserendosi così nel dibattito più che mai quotidiano sulla sostenibilità.
Non solo moda, però: in questi anni abbiamo assistito sempre più spesso alle prese di posizione su questioni etiche, culturali e politiche da parte di brand appartenenti a settori con un pubblico più “tradizionalista”. Mc Donald’s, Coca Cola, Ikea, Renault, Gillette, Diesel, Netflix, Patagonia, ma anche i nostrani Nutella e Durex – la lista di chi ha scelto di schierarsi negli anni è aumentata a dismisura.
Complice di questa evoluzione, sicuramente i media utilizzati: la pubblicità non è più un’esperienza passiva che viviamo davanti allo schermo del televisore, dal cartellone sulla tangenziale, dalle pagine di una rivista. La comunicazione pubblicitaria irrompe da anni nelle nostre conversazioni sui social media, pretendendo di dire la sua “in casa nostra”, sui nostri profili – e proprio per questo finisce sempre più spesso sotto la lente d’ingrandimento del consumatore (tutti noi), sempre più informato, più critico e più consapevole.
Se inizialmente qualcuno ha storto il naso davanti a prese di posizione così nette (vi ricordate le reazioni alle campagne Benetton di Oliviero Toscani?), negli anni abbiamo imparato non solo a non sorprenderci più di messaggi tanto forti, ma addirittura ad apprezzarne l’impegno. A confermarlo è anche una recente indagine europea di Trustpilot, dalla quale emerge che quasi il 48% degli acquirenti online ha consigliato un’azienda ad altri utenti sulla base dei valori in cui l’azienda stessa ha detto di credere. Di contro, quasi l’83% dei consumatori appartenenti alla Generazione Z (i più giovani) non consiglierebbe più i prodotti di un brand di cui non può fidarsi, a prescindere dal valore del prodotto.
Insomma, comunicare il proprio brand scegliendo di dire la propria su questioni contingenti paga. Ma solo se la presa di posizione è cosciente e sincera: la rete infatti non dimentica ed il rischio di venire sbugiardati dal proprio stesso pubblico, pronto a rinfacciarci qualsiasi precedente opinione, è più che tangibile. Così come è sempre dietro l’angolo l’accusa di strumentalizzazione.
Passano gli anni, ma non c’è pace per i pubblicitari!