Doveva essere un articolo spinoso sull’8 marzo, poi invece

Da un paio di settimane qui a copiaincolla siamo entrati in possesso della nostra nuova sede. Quindi ora Qui a copiaincolla è un posto diverso da prima, in Via Bachelet.

Nella nostra nuova sede ci siamo arrivati a piccoli gruppetti. Davanti il camion dei traslocatori, dietro le auto in fila di chi di noi aveva la sua scrivania su quel camion. I primi sono entrati la mattina di un giovedì, gli ultimi all’ora di pranzo del giorno dopo. E sostanzialmente è tutto una figata.

Talmente tanto che si sente meno la stanchezza, che chi di noi arriva da più lontano sente meno i chilometri che ogni giorno deve percorrere. Talmente tanto che quando mi sono messo a scrivere questo articolo, seduto alla mia scrivania di fianco a un balcone con una bella ringhiera di stecche bianche, mi sono detto che no, non dovevo scrivere quell’articolo che avevo in mente sull’8 marzo perché poi magari dava fastidio a qualcuno e pensando a come è piacevole stare qui dentro poi ti viene solo voglia d’armonia.

Va beh, quella cosa dell’8 marzo la dico lo stesso

Non sopporto l’8 marzo e credo di non sopportarlo perché sono profondamente femminista.
L’idea che ci sia un giorno in cui festeggiare le donne mi sembra retrograda, mi sembra svilente per la donna. La necessità di una festa dedicata alle donne mi sembra una prova solare di quanto siano ancora considerate qualcosa di diverso. Una minoranza. Per questo mi viene da boicottarlo, per questo non lo sopporto.
Il sapore che mi arriva da una festa come quella è quello di lunghe tavolate di mogli in pizzeria, in libera uscita quella sera. Come se fosse il solo giorno in cui possono lasciare i figli ai mariti o in cui dedicarsi una serata con le amiche. E perché? Perché mai quelle stesse tavolate – ovviamente in tempi lontani dalla pandemia, con i ristornati e i locali aperti – non dovrebbero esserci la sera del 9 marzo o del 24 o del 16 aprile o del 4 ottobre?
E perché mai non si dovrebbero regalare fiori in qualunque giorno dell’anno invece che aspettare in massa di pagare carissimi chili e chili di mimose (che onestamente, diciamocelo, per restare su un livello strettamente floreale: ma quanti fiori più belli esistono delle mimose?) per consegnarle l’8?

Il fastidio per l’8 marzo è lo stesso che provo anche verso la questione delle quote rosa. L’idea stessa che una donna debba avere uno spazio solo per il suo essere donna e non in quanto meritevole di quello spazio in virtù del suo talento, delle sue competenze, della sua esperienza, mi sembra la cosa più svilente per il suo talento, la sua competenza, la sua esperienza. Mi sembra un buonismo vuoto di senso, più nocivo che utile per le donne stesse.
L’ultimo governo Draghi è stato criticato perché formato da poche ministre. Ma sicuri che la questione debba essere valutare se è stato scelto Carlo invece di Carla? Non è piuttosto mettere sul piatto, allo stesso livello, paritariamente (una parità vera) le capacità di Carlo e Carla e lamentarsi eventualmente del fatto che Carla – esclusa – sarebbe stata molto più brava nel gestire quel ministero di quanto non lo sarà Carlo?

Forse parlo così perché non ho attorno casi di donne discriminate. Perché nella mia vita ho avuto la fortuna di vedere donne trattate con la stessa dignità degli uomini. Di vedere, anzi, sempre persone e di sentire di avere con tutti loro le stesse identiche possibilità di scontro o di affinità, di disprezzo o stima. Senza nessuna differenza.

Però ecco, 8 marzo e quote rosa mi sembrano dei piccoli Fort Apache in cui le donne più che festeggiate e protette vengono confinate rispetto alla realtà. Tenute lì, in una bolla di apparente rispetto. Per come vedo io le donne, non dovrebbero avere nessuna bolla. Per come la vedo io siamo tutti liberi di misurarci come persone con altre persone, indipendentemente dall’apparato genitale di cui siamo dotati.

Faccio un discorso da sognatore? Dimentico che la realtà è ancora diversa (per esempio non esiste un professionismo sportivo al femminile in Italia)? Può darsi. Dico però che uno dei passi sarebbe abbattere i muri di quei fortini. Sarebbe non sentirne la necessità. Rifiutarli. Lottare in campo aperto, ben al di là dei limiti distorti di 8 marzo e quote rosa.

Basta così, torniamo a Via Bachelet 12

Innanzitutto non esistono chiavi. Amazon ha inventato Alexa, copiaincolla invece Alessia. Alessia è il cervellone che gestisce la domotica della nostra sede. Per aprire il cancello automatico del parcheggio o la porta d’ingresso al piano terra non dobbiamo far altro che mandarle un messaggio e al resto pensa lei. La sua immagine profilo è Vicky, la bimba segretamente robot che negli anni novanta chi di noi era un bambino guardava su Italia 1 e quando risponde, invece di limitarsi ad aprire l’ingresso, ci racconta un aneddoto su ognuno di noi.

(Alessia sa distinguere anche le Chiare che abbiamo in ufficio)

Oltre alle chiavi abbiamo abolito anche i telefoni fissi sulle scrivanie.

Centralino e chiamate interne sono gestite attraverso un’app che rende i nostri telefoni personali anche dei telefoni d’ufficio, tenendo separate le utenze. Molto più spazio sulle scrivanie, molto meno rumore di drin costanti.

(Breve digressione su Vittorio Bachelet)

(Il cognome Bachelet si pronuncia alla francese, Basclé.
Vittorio Bachelet era un politico che oltre al politico faceva anche il professore universitario. Proprio in veste di professore di diritto pubblico e dell’economia, nel febbraio del 1980, fu assassinato su una scala della Sapienza di Roma da un commando delle Brigate Rosse.
Era uno dei massimi dirigenti di Azione Cattolica e, al momento della morte, era da quattro anni vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
La sua colpa fu presumibilmente di essere un membro anche della Democrazia Cristiana e molto vicino ad Aldo Moro, ucciso anch’egli dallo stesso terrorismo solo due anni prima)

Altre cose in ordine sparso

Ogni giorno in terrazza viene esposta la regina Elisabetta, e ci resta a troneggiare fiera per tutto il giorno. La scala che collega il piano terra al primo piano è stata progettata attorno al nostro missile. Nella cucina c’è un forno a legna, eredità di quando l’edificio originario di questo posto era una pizzeria. Le riunioni rapide a due o tre persone, vengono fatte nella grande terrazza del piano superiore, seduti su poltrone di legno e protetti da un pergolato bianco. Ci sono un montacarichi, un water giapponese (!), una grande sala lounge, un biliardino, una doccia, divanetti stile museo senza schienale sparsi qua e là.

Nel giardino, da qualche parte, abbiamo noi stessi interrato qualche mese fa una capsula del tempo in cui ognuno di noi ha appoggiato un oggetto che crede lo rappresenti. Ed è importante sapere che il buco dentro cui l’abbiamo collocata l’abbiamo scavato noi stessi con un piccolo escavatore sotto la sapiente guida di uno degli operai dell’impresa edile che stava lavorando al cantiere della sede.

Presto sistemeremo una portina e una rete da beach volley in giardino, per qualche palleggio nella bella stagione in pausa pranzo. O per tramutare una pausa sigaretta in una pausa servizio/ricezione.

Presto spariranno anche gli ultimi scatoloni ancora rimasti da smistare. Presto ogni singolo ambiente raggiungerà la sua massima espressione.

E via così, e via Bachelet.