Capitolo 1 – Gli strumenti sono tutto

Gli strumenti sono tutto. O se non tutto, sono comunque molto. Da sempre tendo volontariamente a sovrastimare l’importanza dello strumento con cui fare qualcosa. Non parlo della qualità dello strumento, ma semplicemente della sua esistenza. Una pesantissima pentola in acciaio. Un sassofono. Una pipa. Un calice bombato da vino rosso. Una mountain bike zeppa di ammortizzatori. Mi basta guardarli per sentire la voglia di adoperarli anche senza sapere di preciso come.

La prima volta che ho poggiato i polpastrelli sul mio Mac, ho sentito la scossa di un’irrefrenabile voglia di scrivere. Scrivere di tutto. Se sono soddisfatto delle cose uscite da quella tastiera, sono convinto che parte del merito sia suo. Lo giuro.

Capitolo 2 – Regalate mezzi per creare cose

Poche settimane fa, mio figlio e la mia ragazza mi hanno regalato due penne e due taccuini. Il fatto che siano due penne e due taccuini che per forma e materiali è meraviglioso anche solo tenere in pugno – figuratevi il piacere di scriverci – e il fatto che siano stati loro a regalarmeli, mi ha condotto dritto dritto dentro un tunnel di bulimia da appunti.
Ho preso nota di tutto, ancor più del solito. Articoli di giornale, il racconto di un concerto, lo sfogo di un amico, concetti presi da un paio di libri, concetti presi da un altro paio di libri e subito trasformati in tutt’altro. Idee che ho già usato, altre che non userò mai, e poi schemi con frecce e frecce senza schemi.

Ora, preso da questa ingordigia di concetti pescati qua e là, sia pur nella consapevolezza che ci sarebbe materiale per scriverne almeno quattro diversi articoli di Tavolobrain, li metto invece tutti assieme. Non sono nelle condizioni di scartare questo o quello spunto, mi spiace.

Capitolo 3 – Il come viene prima del cosa

La Scuola Holden ha avviato un corso di scrittura food. C’è un vuoto nella narrazione della cucina, delle sue sperimentazioni, dei suoi personaggi. Qualcuno ha colto quel vuoto, l’ha razionalizzato prima di altri e ha compreso che poteva esserci spazio per colmarlo. L’approccio ad innovare è una forma mentis liquida: alla costante ed esasperata ricerca di vuoti da riempire.

Terrence Malick è uno che del cosa se ne frega del tutto. I suoi film sono prima di tutto forma, estetica, visioni. La trama è un dettaglio. Ecco, forse lui è un po’ estremo

 

La stessa cosa è avvenuta negli ultimi anni per il racconto sportivo. Cucina e sport sono due argomenti che nella percezione diffusa non meritano più di qualche breve articolo o di qualche discorso superficiale. Eppure la superficialità sta nel come sono sempre stati trattati, non nella loro sostanza. Ogni tema – davvero ogni singolo tema immaginabile – ha un’enorme capacità potenziale di appassionare il pubblico. Basta saperla cogliere e saperla trasferire.

Due dei casi letterari più celebri degli ultimi tempi sono Norwegian Wood e L’arte di collezionare mosche. Il primo parla della cultura scandinava per la materia prima legno – come si taglia, con quali arnesi, le funzioni di ogni arnese, le tecniche di accatastamento della legna tagliata, e via dicendo – il secondo parla del piacere che sta dietro il collezionare e catalogare sirfidi. Le migliaia di copie vendute non sono state acquistate solo da esperti dei rispettivi campi, anzi, e questo dimostra che saper raccontare bene è molto più importante dell’oggetto che si sta raccontando.

Capitolo 3 bis – Man On The Moon

Man On The Moon è una canzone dei R.E.M. ispirata ad Andy Kaufman. Andy Kaufman invece è stato un comico statunitense, scomparso nel 1984 all’età di 35 anni, che nella sua pur breve carriera ha cambiato le regole stesse della comicità. Talvolta impacciato di fronte al pubblico, talvolta arrogante, ha creato un modo unico di far ridere.

Nel 1999 è uscito un film biografico incentrato sulla sua figura. Il cast comprendeva i grossi nomi di Paul Giamatti, Danny DeVito, Courtney Love, ma soprattutto Jim Carrey nella parte di Kaufman. La cosa più speciale del film è probabilmente quella che il film non mostra, e cioè la totale alienazione di Carrey dentro al personaggio anche fuori dalla scena. Per tutto il tempo delle riprese il comico era realmente diventato la personificazione del comico che stava interpretando. Lo racconta il documentario Jim & Andy: The Great Beyond.

Il trailer di Jim & Andy

 

Le scene sono impressionanti. Si vede Carrey-Kaufman quasi inquietare le persone presenti sul set per la sua capacità di annullarsi e diventare un altro. Si vede la vedova Kaufman commuoversi incontrandolo, per quanto era in grado di essere il suo defunto marito. Dice chiaramente che per lei è stato come poterlo incontrare di nuovo. Il documentario è imperdibile anche per i momenti in cui il Carrey odierno, intervistato sulla lavorazione di quel film, racconta come abbia scelto di affrontare la sua interpretazione e divaga talmente tanto da arrivare a parlare della sua concezione di recitazione e, in generale, di creatività. Usa frasi, in almeno un paio di momenti, illuminanti e mantiene per tutta l’intervista una serietà riflessiva che raramente gli si è visto tenere.

Cosa può essere un documentario che racconta come è stato girato e recitato un film se non una celebrazione del primato del come sul cosa? E comunque, segnatevelo: Jim & Andy: The Great Beyond. È su Netflix. Lo dovete vedere.

Capitolo 4 – Piano con le parole

In un’intervista su La Lettura, l’inserto domenicale del Corriere della Sera, Renzo Piano ha detto una cosa che mi ha fatto pensare ad un’altra cosa. L’ho ritagliata e incollata qui sotto.

La sua difesa della bellezza è pienamente condivisibile; non lo è invece la sua accusa ai pubblicitari come colpevoli dell’impoverimento del suo significato.

Le parole sono esseri viventi, nascono, cambiano, si arricchiscono, si impoveriscono, hanno successo e vanno di moda, altre volte invece vengono dimenticate e muoiono nell’oblio dell’incuranza. In quanto esseri viventi, rispettarle e mai maltrattarle è un dovere collettivo. Dare, però, la colpa ad una categoria è ingiusto e darla alla categoria dei pubblicitaria non ha alcun senso. Non puoi chiedere a loro di non stressare talvolta il significato di un sostantivo, non è il loro compito. Loro – noi – piaccia o non piaccia, devono rispondere a dinamiche di mercato e non fare cultura. I picchi a cui la pubblicità ci ha abituato, fortunatamente, più di una volta hanno confuso le idee. Hanno creato sovrapposizioni fraintese tra pubblicità e arte. Una verità scomoda? La pubblicità non è arte né cultura. Quando i fini riescono a coincidere e la qualità delle idee ad assestarsi su valori molto alti, le due cose possono viaggiare di pari passo. Ma sono eccezioni. Non è quella la natura della pubblicità.

Rimproverare alla pubblicità l’incapacità di difendere le parole è come accusare le banche di non concedere prestiti facili. Non è a loro che lo possiamo chiedere. La loro stessa esistenza è basata sul giocare con le parole e sul guadagno da interessi. Meglio cambiare obiettivi e chiedersi cosa ciascuno di noi, ogni giorno, realmente fa per difendere il valore delle parole.

Capitolo terzultimo – Ma quanto è bello dire vetusto?

A proposito di parole da non trascurare. A proposito dell’impossibilità per la pubblicità di difenderle se intralciano il flusso istantaneo del messaggio. Un aggettivo come vetusto è meraviglioso ma difficilmente inquadrabile in un’affissione pubblicitaria, a meno che non sia utile al preciso concept creativo ideato per la campagna. Ma si tratterebbe comunque di un’eccezione a conferma della regola.

Una cosa vetusta

 

Tuttavia, non sottovalutate il valore dell’inaspettato e del diverso. Sicuri che usare parole meno comuni e attuali non sia in realtà una scelta d’avanguardia? Uno stare apparentemente fuori tempo dimostrandosi in realtà in grado di usare toni e approcci unici? Una disputa perenne.

Capitolo 6 – No no e no! O di come i no aiutano a crescere, anche un progetto

Ricordo che il corso di sociologia generale al primo anno d’università mi aveva regalato più di una frase notevole pronunciata dal docente del corso o rubata ad un Bauman qualunque. Tra queste ce n’era anche una che più o meno diceva che avere infinite opzioni di scelta era come non averne alcuna. Spiegava bene il tilt del libero arbitrio di fronte all’universo delle possibilità e, se vogliamo, anche di fronte al dramma del foglio bianco.

Un Zygmunt Bauman qualunque

 

Qui in agenzia accade con frequenza che degli apparenti vincoli posti su un progetto si dimostrino poi in realtà degli stimoli. Che si dimostrino dei sentieri che, per quanto stretti, possono essere imboccati prevenendo il senso di disorientamento che un nuovo progetto può fisiologicamente portare. Come la pallina del flipper che sbattendo qua e là riesce a prendere velocità e a puntare sempre dritto al centro delle due alette.

La stessa cosa vale per i no, per le bocciature di parte di un’idea. Quando i no sono costruttivi, diventano limiti, paletti, ostacoli che aiutano a crescere. Cresce chi li riceve e cresce il suo progetto. Si rafforza, trova solidità, elimina i possibili punti deboli. Dire un no motivato e giusto è una delle cose più generose che si possano fare. E poi c’è sempre la scusa del credimi, lo faccio per il tuo bene.

Capitolo ultimo – Il rumore di un cucchiaino da tè è meglio del gay pride

La seconda cosa di questo articolo che dovete sentirvi moralmente obbligati a vedere è uno spettacolo teatrale. O un monolgo. O un outing. O un attacco a te che lo stai guardando. Difficile definire Nanette. L’autrice ha detto che «Nanette isn’t a comedy show. It’s a sledgehammer». Non è uno spettacolo comico, è una mazza.

Sul palco del Sidney Opera House c’è una donna. Si chiama Hannah Gadsby, è una comica australiana, è gay ed è lì a spiegare perché non ha più voglia di far ridere la gente, stanca com’è di fingere che vada tutto bene. La costruzione dell’intero monologo è meravigliosa. Continua a disseminare lungo la strada pezzi del suo vissuto e di riflessioni che sembrano iniziare e concludersi e invece quando meno te lo aspetti le riprende e aggiunge un altro pezzetto. Un crescendo di pathos rabbioso che gradualmente abbandona le risate dell’inizio (come quando per spiegare che non si è mai riconosciuta nel cliché del gay che va al gay pride, dice che non le piace quel casino e che preferisce starsene a casa a sorseggiare un tè) e costruisce un finale che commuove e inorridisce al tempo stesso.

Il trailer di Nanette

 

Gadsby racconta in pubblico per la prima volta delle violenze subite in quanto donna prima e in quanto gay poi. Il tema delle violenze è sempre complesso da trattare, soprattutto di questi tempi. Difficile parlarne senza cadere nel vittimismo, difficile permettersi di fare distinguo tra avance e molestia. Un campo minato.

La sua bravura lascia a bocca aperta. Purtroppo ciò che vale per la scrittura food e per il racconto della propria passione per la catalogazione delle mosche, vale anche per le violenze. Sono temi. Che siano i più futili o i più fondamentali, se non li sai raccontare in modo efficace non entrano nelle menti né nei cuori di chi ascolta. Gadsby parla di una cosa di cui purtroppo sentiamo sempre più parlare eppure, nelle sue parole, sembra di sentirla per la prima volta. Da sola, in piedi sopra un palco, impugnando un microfono, la puoi sentire prendere per il bavero tutta la platea e anche te che sei sul tuo divano. Non ti permette di nasconderti. Ti mette di fronte a cose scabrose che secondo lei devono riguardare tutti quanti.

Al di là del tema delicato e importantissimo, Nanette è un’opera di retorica. Un esempio roboante della forza delle parole. Chi lavora facendo comunicazione, chi si ritrovi a dover costruire un discorso da pronunciare in pubblico, non può perdersi questa sconvolgente meraviglia.