Viaggio tra i cartoni animati per bambini under 3. Capire come e perché funzionano è molto più interessante di quel che pensate

 

Sono passati quasi dieci anni dal mio primo giorno a copiaincolla. Avevo davanti a me sei mesi di prova e in quel tempo avrei dovuto dimostrare di poter essere utile all’agenzia. Ricordo benissimo quel periodo. La mattina mi alzavo con una strana commistione di orgoglio e ansia da prestazione. Mi mettevo sotto pressione, non potevo permettermi di perdere quel lavoro. Uscivo dalla porta di casa dicendomi Se oggi non sono un po’ più creativo di quel che sono stato ieri, sarà un problema.

Cercavo di allenarmi alla creatività anche fuori dall’orario di lavoro. Avevo cominciato a guardare ogni cosa mi circondasse ponendomi domande del tipo Io ce l’avrei fatta a pensare quella cosa? Perché quell’idea ha successo? Avevo messo in atto molti esercizi e uno di loro era guardare cartoni animati. Facevo colazione davanti ai canali per bambini.

Nei cartoni mi sembrava di trovare una enorme capacità di sintesi. Erano una miniera di spunti creativi. Animali parlanti, imprevisti sempre nuovi, cose inverosimili eppure con un legame forte alla realtà. Ogni scena era semplice e istintivamente comprensibile nonostante partisse da un’idea complessa. Li guardavo per la prima volta con occhi da adulto. Cercavo di smontare quel che avevo davanti agli occhi e immaginarmi il processo creativo sviluppato dagli sceneggiatori e dai disegnatori. Cercavo di tenere a mente quel processo per tentare di replicarlo nei brainstorming che avrei affrontato in agenzia quel giorno.

Ora che sono papà sono tornato a guardarli molto spesso. Pietro non ha ancora un’età tale da godersi un film d’animazione intero, quindi siamo ancora completamente concentrati sui cartoni a puntate. Guardarli ogni giorno mi ha fatto ricordare quei miei primi tempi a copiaincolla e ora, alla luce di questi quasi dieci anni ad occuparmi di contenuti e strategie creative, ho capito che hanno molto più da insegnare di quel che credevo allora.

Una delle cose da imparare è come degli adulti riescano a produrre qualcosa che parla ai bambini con la sensibilità e il grado di complessità più adatto a loro. E questo è il gene della comunicazione: riuscire ad entrare nella testa del proprio pubblico, parlare come lui, pensare come lui. Desiderare quello che desidera, prima ancora che lui sappia di desiderarlo. Ma di cose da capire e apprezzare ce ne sono tante tante di più.

Nei prossimi mesi a copiaincolla nasceranno un po’ di bambini. Ne approfitto allora per dare anche dei consigli ai miei colleghi futuri genitori.

Peppa Pig è una comedy sulla vita di coppia

Il marketing distingue all’interno di un nucleo familiare i ruoli di consumatore e di RA. Il consumatore è colui a cui è destinato il prodotto, l’RA colui che lo acquista. Nel caso dei giocattoli ad esempio, il consumatore sono i bambini, l’RA il genitore. Per i cartoni animati il meccanismo è identico. Sono i genitori a decidere cosa un bambino under 3 guarderà.

Se non avete mai visto Peppa Pig non capirete mai perché ha tanto successo. Il suo segreto sta nella straordinaria capacità di divertire i bambini senza annoiare l’RA. I creatori di Peppa l’hanno capito molto bene e hanno creato un contenuto divertente e appetibile anche per i grandi. Avranno pensato Se piacerà ai genitori, padroni del telecomando, avrà più possibilità di essere amato dai bambini.

Peppa Pig diverte anche i grandi perché è in fondo una comedy sulla vita di coppia. Il papà non ha alcun senso dell’orientamento. È orgoglioso delle proprie capacità di fai da te ma ogni volta che tenta di riparare qualcosa finisce per fallire. La mamma quando va in vacanza con la famiglia riempie la valigia persino con monitor e tastiera del suo computer fisso, un vaso di fiori e il servizio da tè, assicurando che Sono tutte cose indispensabili. I nonni – giustamente – non hanno pensieri per i figli e sono completamente concentrati sulla gioia dei nipotini. Tutto è una caricatura per nulla banale delle nostre vite di tutti i giorni.

L’episodio qui purtroppo è tagliato. Ma potete notare le paure del padre che soffre di vertigini, l’orgoglio femminista della madre contro l’uomo del tiro a segno, la fallacia dell’adulto che dà un pessimo colpo con il martello.

La conquista del pubblico adulto passa anche per la grande quantità di messaggi, più e meno espliciti, indirizzati a creare nel pubblico dei piccoli una sensibilità verso la parità di genere. I ruoli chiave sono femminili. Sono donne, ad esempio, le mamme che come volontarie dei vigili del fuoco corrono a spegnere l’incendio creato dai loro distratti mariti in un barbecue finito male. Donne come la signora coniglio, assoluto personaggio cult della serie. La signora coniglio è la cassiera del supermercato, gestisce il chiosco dei gelati, pilota la mongolfiera, guida lo scuolabus, manovra la gru alla discarica dei rifiuti, possiede un negozietto di souvenir in montagna, e fa mille altre cose. Le femmine sono sempre brave quanto i maschi, quando non lo sono di più.

Il sovranismo di The Lion Guard

La guardia del Leone, traduzione italiana del titolo originale, è uno spinoff de Il Re Leone. Racconta la vita di Kion (pronunciato Caion), figlio di Simba e nipote di Mufasa. Lui è il capo di una squadra che pattuglia le terre del branco. Si sente la gerarchia invadere la storia: lui è il più saggio e valoroso, indispensabile agli altri. Si sente anche questa cosa della difesa dei confini come una tensione costante.

Dal punto di vista del marketing la cosa interessante qui è il branded content creato attraverso un cobranding con il parco divertimenti Leolandia. Attorno alle puntate una guida del parco accompagna due bambini alla scoperta di un animale. Un modo molto intelligente e molto integrato nella linea editoriale del contenitore per fidelizzare ad un contenuto e per dare visibilità ad un luogo in cui il cartone animato può superare i confini dello schermo.

Ma di sicuro con The Lion Guard un adulto si annoia. Nessun cambio di ritmo, nessun dettaglio sfizioso, nessuna trovata originale.

Facile smascherare la Dottoressa Peluche

La Dottoressa Peluche è uno dei tanti contenuti – che chiamarli così aiuta già l’approccio analitico – nati sull’onda dell’intuizione alla base di Toy Story.
Toy Story uscì nel 1995 e fu il primo film di animazione completamente realizzato in computer grafica. Era anche la prima volta che la magia di una storia fantastica si avvicinava tanto alle vite dei bambini, dei genitori, e a tutto ciò che viviamo nelle nostre case.

Toy Story faceva prendere vita ai giocattoli, gli dava sentimenti. I giocattoli smettevano i panni di spalla di compagni di gioco e diventavano loro i protagonisti. La Dottoressa Peluche – le avventure di una bambina che può parlare con i giocattoli e che sa sempre come ripararli quando hanno un problema – non fa altro che replicare lo schema di Toy Story ma con moltissimi limiti. Ha un taglio prettamente femminile, un grosso difetto pensando al potenziale unisex di una storia attorno alla vita dei giocattoli. E in generale le sue avventure sono molto ripetitive e il ritmo sempre molto compassato.

Anche in questo caso, è difficile che un contenuto come quello possa unire il pubblico dei piccoli e quello dei genitori. Una sorta di minestra riscaldata. Male.

Hey Duggee, simbologia hipster e gusto del design

La sua conquista del premio BAFTA – oscar britannici di cinema e tv – basterebbe come prova del valore di questa serie animata. A differenza di Peppa Pig, in cui i disegni sono un’evoluzione dello stile semplice e schizzato dei disegni dei bambini, Hey Duggee è il trionfo di geometrie e grafiche flat.

Racconta le avventure di cinque lupetti – lupetti nel senso di piccoli scout, ma loro sono un polipo, un coccodrillo, un topo, un rinoceronte, un ippopotamo – e del loro educatore Duggee: un cane che non parla e che alla fine di ogni puntata li abbraccia tutti insieme prima di lasciarli andare dai loro genitori. Ogni volta la storia vive attorno alla missione della conquista di un distintivo che i lupetti dovranno meritarsi. Il distintivo delle pulizie, il distintivo della frittata, il distintivo dello yoga, e molti altri distintivi. Se imparano a fare quella cosa, il distintivo è loro.

Qui l’obiettivo è la conquista del distintivo della frittata. Purtroppo su youtube è tagliata, ma il problema era che le galline non facevano uova perché erano troppo sedentarie, chiuse nel pollaio a guardare la loro soap opera preferita. Ecco perché arriva il fenicottero a far fare ginnastica ai polli. Le cose notevoli: la resa grafica del brontolio di pancia di Duggee, la canzone pseudo Cyndi Lauper, le galline prima scocciate all’idea di fare ginnastica e poi scatenate.

Lo schema è sempre identico. I lupetti arrivano da Duggee accompagnati dai genitori. Chi con un mezzo pubblico, chi in auto, chi in bici. In un caso, il genitore è un animale differente dal figlio, perfetta rappresentazione della diversità e della scelta dell’adozione di un figlio. La sigla ha sonorità country incalzanti, lontana da ogni smanceria troppo infantile.

Hey Duggee ha momenti e argomenti facili per i bambini ma che permettono letture anche più raffinate, capaci di soddisfare le esigenze di uno spettatore adulto. Curatissimo nei dettagli anche se a prima vista sembra esattamente l’opposto. In una delle ultime puntate, Duggee accompagna i lupetti in una missione a bordo di un sottomarino e sapete come è vestito? Come un membro dell’equipaggio de Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Un cartone animato che cita Wes Anderson. Fate voi.

Topo Tip confonde educativo con noioso

Le puntate ruotano attorno alla vita di Tip, un topolino che ogni volta trova il modo per non comportarsi bene e che poi trova anche quello per rimediare e riconoscere i suoi errori.

La nobiltà dell’obiettivo educativo di un cartone animato come questo si scontra con la ardente curiosità dei bambini che lo guardano. Sembra scritto da una maestra. L’impostazione è rigida e piatta. Ai bambini non va di trovarsi di fronte a messaggi da puericultrici. Hanno già abbastanza persone che ne correggono i comportamenti e che gli ripetono cosa si può e non si può fare.

I cartoni hanno l’occasione preziosa di educare divertendo, distraendo, facendo scoprire il mondo e anche quello che nel mondo di solito non c’è. Topo Tip sembra non accorgersene, diventando l’appendice delle raccomandazioni dei genitori. Uffa.

I bisticci barocchi di Masha e Orso

Casa Vianello credo non sia mai stato trasmesso in Russia, o per lo meno così mi sembra di aver capito dopo una veloce ricerca. Eppure Masha e Orso sembrano gli alter ego animati di Sandra e Raimondo. Lei è una bambina che vive in una casa vicino ad una piccola stazione in una sorta di valle russa. Lui è un orso che vive in una casa nel bosco. Lei è quasi sempre da lui, che non parla ma capisce tutto quel che Masha dice.

Una delle cose interessanti è proprio nell’utilizzo della parola. Le uniche battute sono quelle di Masha, mentre tutti gli altri personaggi recitano con le espressione del volto e con il corpo. Al massimo con qualche verso. I personaggi sono molto curati. Orso sa sistemare ogni cosa a casa tra cui, tappezzare le pareti, curare l’orto, riparare dispositivi tecnologici. Poi ama leggere, fare le parole crociate, preparare marmellate. La sua amata è un’orsa un po’ distaccata che non lo ricambia come vorrebbe. Poco più in là, su una collina, due lupi vivono dentro una vecchia ambulanza abbandonata.

Un assaggio dell’irrequietezza di Masha e della pazienza di Orso. Nonché del suo genio casalingo, in questo caso addirittura alla macchina per cucire impegnato a creare abiti su misura, uno più bello dell’altro.

Un adulto di fronte a Masha e Orso apprezza senz’altro la dinamicità delle storie e delle gag. Rovescio della medaglia è il rischio di irritarsi di fronte alla vivacità della protagonista che disastro dopo disastro mette a dura prova la pazienza di Orso. Il risultato è più infantile rispetto a Peppa Pig o Hey Duggee dato che mancano livelli narrativi più complessi. Quelli che possono attrarre l’attenzione anche dei genitori.

La Woodstock dei Barbapapà

Il maggio francese era durato fino a giugno. Molto prima dei gilet gialli, nel 1968, Parigi fu la scenografia di un’altra scossa di protesta movimentista che si sarebbe propagata un po’ ovunque in Europa. Una battaglia combattuta sotto le insegne dell’ambientalismo, della lotta al capitalismo, del consumismo, dello scontro totale con la società tradizionale. Nel 1968 a Parigi vivono anche Annette e Taylor.

Annette è una designer francese, Taylor era un professore di matematica statunitense, morto nel 2015. Sono stati marito e moglie per più di quarant’anni, ma sono stati soprattutto gli inventori dei Barbapapà. Il nome e la forma vengono dallo zucchero filato, in francese barbe à papa. Crearono i loro personaggi al tavolo di un bistrot, un anno dopo il maggio francese. Il contesto storico non è un dettaglio, dato che i Barbapapà visti oggi sono un incredibile documento storico per raccontare quella società e quelle visioni progressiste e rivoluzionarie.

L’immagine della famiglia in posa – papà, mamma, tre figlie e quattro figli – sembra una rivisitazione dell’iconica copertina di Stg. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, monumentale album dei Beatles uscito solo due anni prima, nel 1967. Il clima sessantottino si respira fortissimo nei temi sempre centrali dell’ambientalismo, della difesa degli animali, di un’educazione piuttosto pratica dei figli. Ognuno dei sette è lasciato libero di coltivare le sue passioni e di vivere le proprie giornate avventurandosi da solo nel mondo senza genitori al seguito.

Ho visto i Barbapapà per la prima volta assieme a Pietro, senza averli mai visti da piccolo. Sono un racconto leggero ma mai solo puerile. Oltre al valore socio-storico del contesto che rappresentano – che già di per sé sarebbe un buon motivo per guardarli anche da adulti – sono molto godibili. L’idea della loro forma sempre adattabile ad ogni situazione con un semplice barbatrucco è la traduzione visiva del sogno di ogni designer come Annette: creare forme belle ma prima di tutto utili alla vita delle persone. E questi contenuti molto maturi, pur restando intrinseci, sono probabilmente la ragione per cui i Barbapapà riescono a incuriosire anche un over 30 papà di un under 3.