Parte 1 – California ossessiva

Fino a un certo punto della mia vita, sono arrivato in tutti i posti in cui sono arrivato spinto da un istinto di fuga. Nelle mie peregrinazioni attraverso tre scuole superiori, da uno sport all’altro, tra gruppi di amici in cui mi sentivo sempre fuori luogo, sono sempre stati i moti oppositivi, di allontanamento, a guidarmi. L’ultimo, il più magistralmente realizzato e il più efficace per chilometri interposti tra il punto di partenza e la destinazione, è stato quello che mi ha portato a Clarion, Pennsylvania, nord-est degli Stati Uniti.

Questo articolo non parla di un’esperienza all’estero. Questo articolo parla, almeno in questa prima parte, della cicatrice che rimane quando si torna a casa, del piccolo lutto verso una versione di sé stessi che passa dall’essere quella attuale all’essere quella passata in maniera ineluttabile e irrevocabile. Perché là ero tutto quello che volevo essere, avevo respirato l’autonomia adulta, e avevo scoperto che la fantomatica creatività non è una parolaccia ma può essere un lavoro.

Mentre qua ero tornato piccolo, ed era tornato piccolo il mondo.

A questo punto il discorso sarebbe un po’ più semplice se dicessi che mi sono aggrappato al ricordo della Pennsylvania, che volevo a tutti i costi tornare là ad essere ciò che ero stato e che ho fatto di questo l’ingrediente principale delle mie scelte successive. Ma non è stato così.
Quello che è successo, invece, è che qualche mese dopo il mio ritorno è uscito il film La La Land. 

E la California mi ha chiamato.

La sensazione è stata quella di riconoscerla, la California. Innanzitutto come filo conduttore di tutto ciò che in altre esperienze mi aveva affascinato e toccato, e che stava solo aspettando un nome e un contenitore. E poi come direzione. Qualsiasi cosa sarei stato, lo sarei stato in California.
Poi mi sono iscritto all’università a Verona, perché la vita fa il suo corso e il suo corso a volte non si allinea alle nostre aspettative, però mi sono iscritto ad un corso che mi permettesse di strutturare la dimensione creativa, così che potessi poi essere pronto quando sarei partito. Sul treno Mantova-Verona ascoltavo podcast registrati a Los Angeles, e per quaranta minuti all’andata e quaranta al ritorno ero dove volevo essere. Avevo programmato una piccola automazione che pubblicava su Instagram, ogni volta che il mio iPhone entrava in modalità risparmio energetico, la mia ultima foto in galleria con la data, l’ora e la mia distanza in chilometri da Hollywood.

L’avrei attivata un’ultima volta, questo era il piano, per pubblicare un selfie davanti a delle grosse lettere bianche su una collina, a zero chilometri di distanza.

Parte 2 – California immaginaria

Alla fine, in California, non ci sono andato, un po’ per ragioni di budget, un po’ per ragioni di studio.

Questa delusione logistica, sommata al fatto che la mia vita tornava ad essere più solida di quanto lo fosse stata nella precedente fase di disorientamento, mi ha permesso di fare un passo indietro rispetto alla mia idea della California e di riconoscerla, appunto, come un’idea.

Che il Sogno Americano fosse un concetto poco radicato nella realtà lo sapevo già, razionalmente, ma vuoi l’angoscia della crisi di identità, vuoi i colori di La La Land, semplicemente non ci avevo pensato. 

“Hollywood infected your brain”, canta Marina. Quando mi sono accorto che aveva ragione, ci sono rimasto male. Un po’ perché mi sono sentito ingannato proprio in una fase di bisogno di direzioni, un po’ perché mi ha disorientato prendere atto, nel leggere di cose come la crisi abitativa o le proteste dei professionisti della creatività, che c’era un’intera sfera di variabili reali che avevo completamente ignorato. Ma quindi si può star male anche a Los Angeles? I Vampire Weekend dicono: “Baby, I know pain is as natural as the rain. I just thought it didn’t rain in Califonia”, ma basta citare canzoni.

Lo sapevo, certo, o almeno potevo saperlo. Come ho detto prima, non ci avevo pensato.

Quando finalmente sono riuscito a pensarci, mi sono reso conto che la California non esisteva. O meglio, che non poteva esserci sovrapposizione tra una regione geografica nel sud-ovest degli Stati Uniti e lo spazio concettuale su cui avevo proiettato le mie speranze e idealizzazioni e che, solo per coincidenza, aveva lo stesso nome di quella regione geografica.

Probabilmente era quello il motivo per cui non mi ero aggrappato nello stesso modo alla Pennsylvania, che avevo conosciuto nella sua realtà e che mi risultava quindi più difficile da romanticizzare.

Sono rimasto a piedi.

Avevo scelto percorsi, avevo preso posizioni di vita, ma nel nome di cosa, se quel qualcosa non esisteva?

Parte 3 – California dappertutto

Però cavolo.
La necessità e la soddisfazione del creare, il tessere fili concettuali complessi, la forma delle parole, che siano inchiostro o voce… io quella chiamata l’avevo sentita davvero, e continuavo a sentirla. Non solo continuavo a sentirla, ma dopo la caduta concettuale della California immaginaria la percepivo molto più vicina, molto più presente e pervasiva. E allora, per soddisfarla, iniziavo a prestare più attenzione a ciò che avevo intorno più che a ciò che speravo fosse oltreoceano.
Quel qualcosa che avevo intrappolato nel barattolo californiano era rimasto senza contenitore, stava sbrodolando ovunque.

La California immaginata o – per generalizzare un po’ il discorso – l’idea, il sogno, la vocazione, addirittura l’illusione, sono strumenti potentissimi perché identificano una direzione e permettono di muoversi in maniera precisa e intenzionale. Mi ricollego al concetto con cui ho aperto questo articolo: la fuga genera vite centrifughe: “dappertutto, purché non lì”. La California immaginata (che mi permetto di continuare chiamare così, ma che confido ognuno saprà declinare nella propria forma), invece, genera una vita centripeta: “dovunque io sia, sto andando lì”.

Individuare questa chiamata ideale, credo, non è troppo difficile. Bisogna fare attenzione alle cose che ci piacciono e ci toccano e bisogna credere, in qualche modo, che se davvero del mondo e degli altri odiamo ciò che odiamo in noi, allora deve esistere anche un meccanismo opposto per cui i nostri film preferiti, le frasi che sottolineiamo, i dettagli che fotografiamo tessono una rete che descrive ciò che dobbiamo essere.

Io a questo punto nemmeno so dire se davvero La La Land mi piaccia in senso strettamente cinematografico, ma di sicuro c’è qualcosa in quell’immaginario, in quella California, che risuona con qualcosa che è in me e che quindi, in qualche modo, sono io.
Una volta individuata questa chiamata, bisogna fare attenzione a non confonderla con un fine, bisogna essere consapevoli del fatto che la California non esiste, altrimenti la direzione chiara serve solo a generare una corsa affannosa e disperata che corrode le ginocchia.
Quale poi sia il vero fine, il vero obiettivo di un percorso di vita sano, non saprei dirlo. Non ho la pretesa di esaurire la questione sul senso dell’esistenza.

Da quando mi sono accorto che le mie proiezioni ideali non esistevano, sono stato libero di dedicare più cura a ciò che invece esiste, alla realtà che è meno spettacolare, meno costantemente colorata, ma costantemente presente e viva.

Sto imparando a smettere di chiedere alla mia “chiamata” di aspettare un altrove ideale per esprimersi. Sto cercando di darle la possibilità di crescere, definirsi, magari anche di portare frutto nella quotidianità.
Diciamo che, in un certo senso, sto ancora andando in California.
Solo che la California è dappertutto.